Catturare il passato è una questione di ‘comunicazione umana’.
E per catturarlo oggi, insieme ai miei compagni di viaggio, siamo giunti a Maida, paesino della provincia di Catanzaro, che conta circa 4.400 abitanti. Ogni anno, il 2 aprile, gli abitanti del paese festeggiano San Francesco di Paola portando avanti il rito della ‘ciciarata’. Continuo a voler fortemente ricercare ciò che si nasconde in questa affascinante e necessaria oscillazione di tempi, passato/presente, con un’unica protagonista al centro: la ‘tradizione’.
La percepisco, la vedo, poi la tocco con mano, nelle tante donne e nei tanti uomini che già a partire da ieri sera, dopo la processione del santo, fino a stamattina continuano nei secoli a ‘massaggiare’ una tradizione antica, che racchiude in se valori come fratellanza, amore, amicizia, spiritualità, ma anche il senso del cibo, il tutto in un’atmosfera di piena accoglienza, dove il ‘cibo’ benedetto diviene oggetto di contemplazione, legame tra ieri e oggi.
Chiedo ad un ragazzo a quale periodo risalga la ‘ciciarata’ di Maida, ma rimane incerto sulla data, e in quell’esatto momento interpreto il ‘tempo’. Dapprima lo immagino lontano, poi tutto a un tratto vicino, vicinissimo a me, a tutti noi che abitiamo lo spazio circostante del convento dei minimi di Maida, quello che vissuto da San Francesco e dai frati francescani proprio come oggi raccoglieva a rapporto sotto i 5 portici tutta la popolazione di Maida e in particolar modo i più bisognosi. E quindi un’immagine velocizzata e mossa mi appare davanti agli occhi e mi riconduce al senso della tradizione, alla sua forza.
“Una vera tradizione non è la testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che anima e informa di sé il presente”, diceva Stravinskij.
Compiamo un grave errore tutte le volte in cui crediamo che per tradizione s’intenda qualcosa di ‘vecchio’ oltrepassato e distante a noi. La tradizione non può essere ereditata! Se la vogliamo dobbiamo conquistarla con gran fatica, diceva Eliot.
Una ventina di caldaie pronte a cuocere un’immensa quantità di ceci, legna pronta ad ardere, ‘quadare’ in fila, rispettose e a servizio del popolo, uomini col viso annerito dal fumo sorridenti mentre brindano e rompono pacchi di pasta da immergere nei ceci; ragazzi di ogni età in fila con le pentole in mano pronti a riempirle di pasta e ceci, pentole in alto e cucchiai a battere contro le pentole, e tutto il rumore delle pentole che suonano; la piccola banda che suona e poi spintoni… tutto questo non può che ricondurci al fatto che Maida, i maidesi, tutti i calabresi che oggi erano presenti per questo evento e tutti i maidesi emigrati che portano un pezzo di Maida nei paesi esteri, rendono viva più che mai la tradizione perché la rielaborano, la reinterpretano, perché la cedono alle nuove generazioni affinché queste la reinventino ancora e poi ancora un’altra volta. Ed ecco il fascino della tradizione che sfugge ai più, a quelli abituati a guardare in maniera vecchia, racchiuso nel fatto che la tradizione non la puoi mai ‘definire’ o identificare.
E quindi catturare il passato si può, ma solo se siamo in grado di ‘comunicare’, se siamo in grado di parlare del nostro presente e renderlo palpabile. Se rendiamo la tradizione motivo di ‘trasmissione’. La storia ha bisogno di essere studiata e ripercorsa, il ‘senso comune’ deve essere riconquistato, altrimenti il rischio è di non ricordare più il passato, di non catturarlo, di farlo morire. È grazie alla connessione tra tradizione e continuità che si può forse parlare di identità. Lo stesso ragazzo, poco distante dalla fila, a cui prima ho fatto qualche generica domanda molto spontaneamente mi spiega come ancora si tramandi per tradizione l’offerta, che diventa assolutamente votiva, di cibo, legna e altri finanziamenti che servono per l’organizzazione delle due giornate. Questo, il senso più autenticamente religioso ma nel contempo laico, e che indubbiamente riveste di sacralità il cibo.
Credo che dovremmo partire dal gettare ciascuno di questi sguardi nei riti e nelle tradizioni portate avanti nel nostro presente per capire meglio chi siamo, eventualmente per disconoscerci e poi riconoscerci, gettarli e poi raccoglierli, svuotare per riempire, avviare un procedimento di integrazione come un puzzle da ricostruire, partire dai piccoli paesi, dai piccoli borghi, come sta avvenendo negli ultimi tempi nella nostra regione, da parte di gruppi culturali, di giovanissimi con tanta passione e amore per il proprio paese e che per la valorizzazione dello stesso impiegano tempo, energie e risorse proprie.
Ci sentiremmo tutti meno soli, scopriremmo tutti di avere un’altra faccia, che non necessita di specchio, una nuova faccia da ‘calabresi’ che non è più e forse non lo è mai stata – se solo imparassimo a riconoscere la paura e decidessimo di allontanarcene – una faccia triste che adora solo lamentarsi. Non solo d’estate scopriamolo, ma anche d’inverno, in autunno e in primavera, non solo quando progettiamo il festival del nostro amato paesino d’origine ma anche quando decidiamo di metterci in auto per andare a conoscere le facce di un altro paesino e magari domani anche le facce di un altro paesino ancora ma di un’altra provincia, quando progettiamo insieme un unico grande festival estivo o invernale con dentro tutta la nostra ‘tradizione’ e sorridiamo al resto del paese.
Valeria D’Agostino
Valeria D'Agostino è giornalista pubblicista, curiosa del bello, amante della natura e della poesia. Ha contribuito a realizzare il Tip Teatro di Lamezia Terme, già ufficio stampa di Scenari Visibili, blogger sin dagli esordi di Manifest Blog. Ha lavorato per Il Lametino, attualmente corrispondente esterna della Gazzetta del Sud. Nell'ambito della scrittura giornalistica ha prediletto un interesse particolare per le tematiche sociali, quali in primis la sanità e l'ambiente, culturali, e artistiche. Si divide fra Lamezia Terme e Longobardi, costa tirrenica cosentina dove si occupa di turismo e agricoltura biologica. "Un buon modo per dare concretezza al concetto di fuga".