“Peppe Voltarelli canta Otello Profazio” è il nome del libro e cd, che ieri l’artista cosentino ha presentato nell’ambito del festival di Trame, con la collaborazione del Color Fest. Secondo Voltarelli Profazio è un maestro da riscoprire. Egli rappresenta con la sua voce un’Italia antica che non deve morire. Profazio compone tante canzoni originali oltre ad aver riarrangiato molti pezzi della tradizione popolare calabrese. Tratta temi quali l’emigrazione, le tradizioni, la vita di tutti i giorni nella realtà calabrese e del sud, ribaltando gli stereotipi che lo costraddistinguono, facendone quasi un urlo di appartenenza, ma il tutto condito da ironia, propria dei popoli antichi, quel non crederci mai del tutto, nemmeno alle proprie parole, fenomeno tipico di tutte le culture popolari, che hanno una storia antica e ne hanno viste di tutte i colori, così tante da mettere in discussione le proprie stesse idee, sempre precarie, dovendo fare i conti con l’imponderabile e la propria stessa irresolutezza. È proprio questo lo spitito di «E qua se campa d’aria» che Voltarelli canta magistralmente con grande pathos e trasporto, traghettando il pubblico in atmosfere antiche di un’Italia meridionale che forse non c’è mai stata, ma che certo vive nell’immaginario collettivo. Realtà essenziali, minimaliste, in cui alla fine per vivere non c’è bisogno della civiltà, ma si basta a sé stessi, nutrendosi della propria ironia e della bellezza di un sud, luogo mitico e sensuale, forgiato da millenni di storia e di contatti con quell’oriente, mistico, trascendetale, immaginifico.
Il cantante calabrese, che ora vive fuori regione, e dice che avrebbe grosse difficoltà a pensare di tornare, pur amando visceralmente questa terra, ma temendola al contempo, «per il suo immobilismo che fagocita tutto», tra un brano e l’altro, sostiene che il folk sia un genere attaccato ingiustamente, svalorizzato e vittima di troppi pregiudizi, al contrario di quanto ad esempio non avvenga negli Stati Uniti, dove ci sono intere chart dedicate al genere, e radio tematiche. Per Voltarelli il suo disco ha tra gli obbiettivi primari, oltre ad omaggiare un grande della musica calabrese, un monumento, un gigante, come lo definisce, quello di riavvicinare la gente al folk e da questo al dialetto, vera linfa vitale dell’Italiano, che non a caso da quando i linguaggi dialettali stanno cadendo in disuso, si sta impoverendo esso stesso. Ma il dialetto per essere vivo deve essere utilizzato nella vita quotidiana, cantato, scritto, e deve rispondere ad una necessità, non a mero esercizio di stile, o ad una moda del momento. Il dialetto ha delle potenzialità espressive fenomenali, ha il cuore caldo e incazzato, un po’ come quello dei calabresi, la cui anima è inscindibile da esso. Gli artisti calabresi e non solo dovrebbero trarre spunto dalla lezione del dialetto, per comprendere che per essere veramente qualcuno bisogna valorizzare i propri sapere e capacità. Sennò saremo sempre una copia sbiadita di realtà che hanno senso solo nei luoghi in cui sono nate.
Infine l’artista cosentino dopo aver regalato altri pezzi storici di Profazio (Amure Amure, Santo Stefano, ecc.), ad un pubblico entusiasta che lo seguiva con grande trasporto, lui uomo solo sul palco con la sua chitarra, dà un messaggio chiaro ai giovani: «Per riuscire nella vita dovete sudare ed impegnarvi, cercare una vostra strada e perseguirla con impegno, perché senza questo non si realizzerà mai niente di cui andare fieri. Nutritevi di belle letture. Andate all’università della vita. Fate l’amore, anche esso si deve imparare a fare. E circondatevi delle persone giuste che vi possano dare buoni consigli. Crescere non è facile, a volte implica sofferenza, ma ciò non toglie che ne valga la pena». In tal senso Otello Profazio rappresenta una montagna, un uomo solo sul palco, ma un uomo che ha vissuto in pieno la propria esistenza, così quando lo si ha davanti non è semplicemente lui, ma le innumerevoli esperienze e persone che egli ha incontrato nella sua vita. Questo spiega la complessità che sta dietro la rielaborazione dei sui brani, appartentemente semplici, essi raffigurano universi, a cui si può solo dare uno sguardo, certo originale, ma che non si può certo intaccare, per non far perdere l’armonia che li tiene legati insieme, in un meraviglioso cosmo, di luci e di ombre, terribile ed eterno, un po’ come l’animo del calabrese, capace degli atti più nobili ma anche di immane ira o profondo adombramento, se lo si delude, tradendo il suo cuore. Un po’ come quegli dei dell’antica Grecia, da cui proviene…
Il poeta non è altro che un canale, un medium per l'infinito, che si annulla per fare posto a forze che gli sono immensamente superiori e, per certi versi, persino estranee. D'altra parte chi sono io di fronte al tutto, ma al contempo, cosa sarebbe il tutto senza di me?