Cammino da sola, vedo il mondo attorno scorrermi veloce, tra auto, semafori, insieme al passo di innumerevoli persone, altre voci, e cieli azzurri davanti agli occhi, poi mi appaiono improvvise altre vite, quelle piccole, invisibili, quelle delle formiche, quelle che inizio a pestare.
Fiumi che sembrano straripare, dopo una notte di pioggia e fulmini, rapiscono il mio sguardo, ma un attimo dopo sono già altrove. Cammino, una luce improvvisa si adagia ai muri gialli di un palazzo, e il sole inizia a riflettere sui miei capelli. Cos’è la poesia? Mi chiedo. C’è qualcosa di altamente poetico nel pensiero della vita associato a quello della morte…
Oggi decido di incontrare il professor Antonio Iacopetta, col quale farò due chiacchiere a proposito del suo nuovo libro. Ogni volta che lo incontro è sempre gioia. Già il suono della sua voce mi rimanda a qualche cosa di antico, tale che il mio immaginario inizia a muoversi, a spaziare. E tutto a un tratto non sono più dove mi trovo, sono altrove, in un passato remoto, lontano, lontanissimo. C’è della semplicità nei poeti, qualcosa di fortemente autentico, un senso di smarrimento affascinante, la paura e l’oblio.
Riflettevo in queste ultime settimane, durante questo anno che sta per terminare, su argomenti intrecciati tra loro, che è raro trovare professori, guide o maestri, pronti a trasmettere qualcosa. Ogni volta che mi intrattengo a parlare con lui, invece, sento di essere davanti a una lezione dalle mille sfaccettature, quelle che i più non vedono, ma che i cuori sensibili percepiscono, anche a distanza o in silenzio. Che si parli di metrica o di versi, poco importa, Antonio Iacopetta è un uomo umile, porta gli occhiali neri, e dietro ai suoi bianchi baffi si nasconde ancora l’innocenza di un bimbo. Gli uomini del passato, come Iacopetta, non chinano la testa per nessuno, non chiamano i giornali, non si auto celebrano. Hanno un bel dialogo con la morte e una bella amicizia con la solitudine, gli uomini come Iacopetta sanno ancora indignarsi. In una stanza piena di colori e di libri quest’uomo mi appare in tutta la sua dolcezza, e mi sorprende… Finiamo per parlare di Cioran, finiamo per essere insieme altrove. Ed ecco le cose minimali, che a chiamarle per nome sono emozioni.
Parliamo della raccolta…
Questa seconda raccolta, il cui titolo è “Reticoli”, in un certo senso è il proseguo del primo volume, edito Passigli, “Minimalmente”, sia per tematica, sia per struttura, è un libro sotto forma di diario e riguarda le persone le cose più comuni, più semplici e più ordinarie. L’universo che è stato trascurato dai poeti c.d laureati, un continuo scandaglio nella memoria e nella osservazione della realtà così com’è, evitando fin quando è possibile – poiché la poesia è un linguaggio speciale – le metafore, le analogie ardite, ecc.
Perché cerca di evitare le metafore?
Evitare le metafore per quello che il mio amico Enrico Testa, uno dei più grandi storici della lingua italiana, definisce lo ‘stile semplice’, come il titolo del suo libro pubblicato da Einaudi. Lo stile semplice che contraddistinguerebbe una certa area poetica, di narratori che fanno poesia e che evitano lo stile ornato, classico.
Un secondo volume, quindi, che è una fase intermedia, perché Iacopetta avrebbe già pronto anche il terzo, che a dire del professore e critico letterario, conosciuto dai più per aver riscoperto e restituito in maniera coerente la poetica di Franco Costabile, uscirà per Passigli tra qualche anno. E di questo terzo frammento Iacopetta ci rivela pure il titolo: “Zeritudine”. Siamo ancora nel minimalismo, ma si arriva allo zero, e chissà che non si possa scendere ancora più giù? Perché c’è questa esigenza di scendere sempre?
Perché nelle cose che sembrano invisibili ci può essere lo straordinario, un minimalista è un visionario allo stesso tempo. (Bisogna attivare lo sguardo, lo stupore). Sia il visibile che l’invisibile suscitano lo stesso shock emotivo. Una cosa che ha notato molto bene il professore Carmine Chiodo, che ha curato la prefazione per Reticoli, è l’alchimia, la visionarietà.
Di recente abbiamo avuto modo di ascoltare Dante Maffia, grande critico letterario. Ebbene, lui afferma che tra il minimalismo e le cose minime vi sia una leggera differenza…
Certo, da un punto di vista del linguaggio tra cose minime e minimaliste c’è una differenza sottile. Le cose minime sono le cose piccole ma di nessuna importanza, le cose minimali qui non hanno il gonfiore, la grandezza delle altre ma non per questo non meritano considerazione. Il minimalismo, corrente della letteratura americana post moderna, era inteso nell’attenzione della descrizione di un romanzo, dei dettagli, dei gesti, sentimenti più comuni del personaggio. Vi furono grandissimi minimalisti americani, in Europa un po’meno. Minimo, trascurabile, dal punto di vista poetico e artistico può intendersi qualcosa che all’apparenza è comune ma che per lo sguardo può avere una importanza enorme.
Nella sua brevità ci sono però tratti profondi che riconducono a più sentimenti…
Nel libro si possono notare più momenti personali della mia vita, e anche nelle poesie più brevi, quelle che somigliano agli haiku giapponesi, dove emerge il ricordo estremo di mia madre morente, o di mio padre, sempre nell’ordine di tre o quattro brevissimi versi, senza rispettare però il dettaglio tecnico degli haiku, perché lì sarebbero due settenari più un quinario… io prediligo la brevità. Gli haiku adesso son diventati una moda, ma un secolo fa fu Ungaretti a scoprirli: la prima raccolta di Ungaretti, Allegria di Naufragi, deve molto a questa tradizione poetica giapponese, solo che in Ungaretti la brevità mirava a spaziare le parole, una dall’altra, mirava a dare una risonanza alla singola parola.
Mi pare di capire che la metrica è importante ma lei predilige altro?
Nella metrica, uno dei linguaggi portanti della poesia, la musica è importante seppure di diverso tipo, può essere melodica, asciutta, rigorosa, o addirittura anche informale, però col c.d verso libero o metrica libera, si intende tutta la metrica. Io seguo una polimetria, un testo composto da versi diversi, di quantità differente, un quinario, un settenario, ecc. Polimetria. L’importante è il ritmo, e questo lo da la stessa sintassi, la divisione del periodo, anche una parola isolata o un sintagma ti può dare il ritmo. Non c’è bisogno di ricomporre il sonetto, la ballata, si può anche fare, come ha fatto in via di sperimentazione il poeta Zanzotto, il quale ha resuscitato il sonetto, però per me il verso libero sta bene, con questo non escludo che chi invece preferisce le forme classiche, le forme chiuse della metrica, non possa essere un poeta.
La memoria, e il dialogo con la morte. A volte leggendo le sue poesie ho avuto la sensazione di una nostalgia perenne…
Il rapporto con la morte è particolare, a volte l’affronto in modo ironico e giocoso, per esorcizzare la paura e l’angoscia. Un rapporto ineliminabile ma non ne faccio una ossessione. Forse la poesia è una forma di terapia. Perché ti può liberare da tutto ciò.
Può la poesia essere un filtro attraverso cui restare sempre vivi? Non morire mai? Per essere ricordati…
È il sogno di tutti quanti i poeti farsi ricordare. Ricordo una scena di un film, la Nouvelle Vague francese, c’era Jean-Paul Belmondo con uno scrittore famoso, un po’ annoiato, alcolizzato, in un angolo in silenzio e in solitudine, l’intervistatore lo avvicina e gli chiede “Qual è il più grande desiderio della sua vita” e lui risponde “Diventare immortale e poi morire”. E il sogno di tutti. Non sarà una immortalità di omero, può essere anche relativa, ma sempre di immortalità si parla e si sogna.
Giornalista pubblicista