Tirabasso delle Cesane- un racconto fantasy delle Marche

Silenzio.

Attorno a lui, nulla si muoveva.
“Fatto il danno, fuggono”.
Ogni volta così, dopo i danni procurati… e toccava sempre a lui cercare di rimediare.
“Ogni volta è più difficile”, pensò.
Tirabasso si grattò la piccola testa pelata, e sbuffò.
Se aveste potuto vederlo, sareste rimasti a bocca aperta: una piccola figura, alta un metro e dieci, che camminava avanti e indietro, nervosamente, attorno agli alberi ridotti in cenere.
Ma naturalmente, non avreste potuto vederlo: Tirabasso era un folletto. L’ultimo Folletto delle Cesane.
Come? I Folletti non esistono? Vivono solo nelle favole?
“La realtà è un’altra cosa”, già odo le vostre sdegnate proteste.
Beh, ma che cos’è una favola, se non una realtà più semplice?
In un mondo meno pretenzioso i Folletti si possono vedere, e gli incendi non nascono mai a causa di una sigaretta non del tutto spenta buttata per terra.
Tirabasso, però, come altri prima di lui, aveva avuto in sorte una vita particolare: esisteva sia nel mondo della Fiaba che nel nostro, e doveva vedere ogni giorno entrambe le realtà.
Era il custode di quella natura rigogliosa e miracolosa che abbelliva i colli sopra Urbino, la vecchia città del Duca, e non conosceva altro scopo, nella vita terrestre.
Dall’alba al tramonto- i Folletti sono come la gente normale: dormono di notte- camminava instancabile in mezzo alle foreste e al sottobosco, accarezzando gli alberi, controllando la loro nascita, crescita e morte, osservando i movimenti degli animali, e la loro progressiva tendenza a nascondersi sempre nelle parti più nascoste dei boschi; saltava da uno steccato di legno all’altro, seguendo le orme dei caotici e rumorosi umani che ogni fine settimana andavano a fare i loro assurdi picnic sui prati delle Cesane, e scuoteva la testa ogni volta che li vedeva esultare per aver trovato dei funghi.
Lui sì che conosceva dei funghi bellissimi, e dal sapore squisito: quelli che trovavano gli umani erano i Funghi Pigri- così erano registrati nei quaderni amministrativi dei Folletti- che preferivano starsene sul ciglio dei sentieri, e non avevano intenzione di vivere nelle profondità del bosco.
Quei funghi erano terribilmente vanitosi, e volevano farsi vedere a tutti i costi, col risultato scontato di farsi scoprire dagli esseri umani e di finire così la propria vita dentro una pentola umana, pronti per essere poi mangiati dagli uomini.
“Non è proprio una bell’affare, la vostra sfilata di moda sul ciglio del sentiero”, pensava spesso Tirabasso, e quel pensiero ogni volta lo faceva ridere.
Quel giorno d’estate, però, non rideva affatto.
Quello era il giorno del Grande Incendio. Non ne vedeva uno così da secoli, ed era molto preoccupato.
Più la vita sul pianeta andava avanti, più la Terra era stanca: non era facile avere a che fare con gli umani, e con le loro assurde pretese.
L’uomo voleva che la natura si adattasse all’ambiente umano, e non viceversa, come avrebbe dovuto essere, e quella eterna lotta tra la ragione e la follia lasciava sempre enormi strascichi.
Gli incendi c’erano sempre stati, ma nell’ultimo secolo nascevano sempre per sbadataggine e incuria umana, e ogni volta per Tirabasso era sempre più difficile ristabilire l’equilibrio, convincere le piante ad avere fiducia nel terreno, e a crescere di nuovo, come prima.
Gli alberi erano sempre di meno, e Tirabasso aveva paura che questa volta non ce l’avrebbe fatta a far ricrescere le Cesane come prima.
L’incendio era stato spaventoso.
Interi ettari di bosco erano andati in fumo, in poche ore, e Tirabasso non era ancora riuscito a ricostruire la dinamica precisa.
Si era allontanato dalle profondità del bosco, per vedere di cogliere in fallo l’eventuale responsabile- di solito era un fumatore sbadato di quelle insoddisfacenti cose chiamate sigarette- ma sul ciglio della strada che attraversava le Cesane non aveva visto nessuno.
L’attentatore si era dileguato, ma Tirabasso dubitava molto che se ne fosse andato consapevole e pieno di vergogna.
Gli esseri umani non si accorgevano mai di nulla.
Sospirò profondamente, e si volse indietro per tornare nel bosco.
Sapeva quello che doveva fare, o perlomeno era determinato a provarci. Non sapeva se questa volta sarebbe bastato.
Ma quello era il suo destino, il suo compito millenario, e lui non conosceva altro modo di esistere.
Tornò indietro, lentamente, mentre davanti a lui si estendevano chilometri e chilometri di terra bruciata, di erba ingiallita prima del tempo.
Attorno a lui cadevano rami ormai morti, abbandonati a sé stessi.
Le piante odiavano il fuoco, e ogni volta che venivano anche solo sfiorate, non riuscivano a sopportarne l’odore, e si liberavano in fretta delle loro parti ormai in cenere.
Quest’incendio era stato rabbioso e devastante, molto più del solito, e gli alberi erano andati nel panico; i rami cadevano rapidamente, le radici si sradicavano dal suolo, e l’aria era sempre più avvolta dalle silenziose urla vegetali, che solo un Folletto poteva udire.
Dopo dieci minuti, Tirabasso non le sopportava più.
Doveva fare qualcosa, e subito.

Ora si trovava al centro di una radura, nella parte nord della vallata delle Cesane.
I boschi erano silenziosi, ancora attoniti e sconvolti per tutto quello che era accaduto.
Presi dal panico, avrebbero potuto uccidersi a vicenda, e non sarebbe rimasto più nulla.
Tirabasso sapeva che cosa fare.
Fece un profondo respiro, sperando in cuor suo che quell’estremo rimedio funzionasse, e chiuse gli occhi.
Quando li aprì, avvertì la magia del canto crescere dentro di lui.
Era pronto.
Cominciò a cantare, e il bosco, dopo molte ore di orrore e grida silenziose, udì una voce piena di speranza, che cantava parole che io e voi non avremmo né udito né capito, ma che per delle piante erano chiare e limpide come un raggio di sole dopo una tempesta durata secoli.
Tirabasso parlava di radici ben salde nel terreno, di foglie verdi e rigogliose, di animali che correvano senza pensieri nella foresta, di funghi nati e cresciuti in tranquillità; raccontò della rugiada delle sei del mattino, dei tronchi saldi e robusti, dell’aria senza fumo e fiamme, tranquillizzò sul futuro e sul passato.
No, non era colpa loro. No, il mondo non sarebbe crollato.
C’era ancora bisogno degli alberi, sulla Terra. Senza di loro, tutto sarebbe andato in rovina.
Mentre cantava, udì i rumori nati dalla paura affievolirsi attorno a lui.
I rami non cadevano più. Le radici rimanevano al loro posto.
Tutto era tornato tranquillo. Tirabasso aprì gli occhi.
Gli alberi sopravvissuti erano di nuovo immobili, e aspettavano che il tempo tornasse ad aggiustare le cose, come era sempre accaduto.
Il Folletto sospirò. “E’ andata, per questa volta li ho convinti”, si disse.
Ma per quanto ancora? Gli alberi comprendevano molte cose, e si erano accorti che il mondo non andava più come prima.
Per questa volta lo avevano ascoltato, e le Cesane sarebbero rimaste, e i boschi sarebbero ricresciuti… a fatica, ma lo avrebbero fatto.
Ma per quanto ancora si poteva giocare così con i boschi?
Nulla è eterno, nemmeno il mondo.
Cosa avrebbe fatto, se una cosa del genere fosse ricapitata?
Per questa volta c’era mancato poco, e lui era vecchio, era l’ultimo.
Chi si sarebbe occupato delle Cesane, dopo di lui?
Tirabasso restò sveglio tutta la notte, ma non trovò la risposta.

Di Pesaro. Ho trentaquattro anni, vivo e scrivo da precario in un mondo totalmente precario, alla ricerca di una casa dell’anima – che credo di aver trovato – e scrivo soprattutto di fantasy e avventura. Ho sempre l’animo da Don Chisciotte e lo conserverò sempre!

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