L’eroina e la doppia vita, il racconto di chi ha sconfitto la dipendenza: “Ne parlo per combattere le etichette e il pregiudizio, oggi sono pronto a nuova vita”

Ci sono momenti in cui scartavetrare la propria vita diventa necessario per poter restituire, ad essa, nuova linfa. È quello che sta provando a fare A.C. da quando è uscito dal tunnel delle dipendenze da alcool e droghe. Il suo racconto, oggi, non è altro che uno scrollarsi via di dosso il passato, per tenere del passato solo ciò che è utile, come i bei ricordi, e soprattutto le qualità di un carattere rimaste integre. Il resto conviene buttarlo via, rimuoverlo bene, a tal punto che A.C.  oggi è un’altra persona e vuole farla conoscere al mondo. Ma il suo racconto ha un altro nobile obiettivo: inviare un messaggio ai più giovani, fra quelli più distratti, mostrare ancora una volta le sue ombre, per dare l’idea della pericolosità delle dipendenze, per fornire una consapevolezza chiara, la sua, circa l’autodistruzione di un tempo che si ripercuote su numerosi fattori presenti e futuri.  Poi continuare il cammino, godere del sole e della luna.  

Il suo racconto, quindi, diventa testimonianza. Lo ripeteva qualche settimana fa il Procuratore della Repubblica di Lamezia Terme Salvatore Curcio “I giovani non hanno bisogno di maestri ma di testimoni”. La stessa frase l’ha poi ricordata il parroco di S. Antonio, qualche giorno prima della festa al Santo. Oggi, mediante le parole cariche di significati, e di passione per la vita, quel pensiero assume una consapevolezza maggiore. Attuare, concretizzare, la ‘testimonianza’ attraverso una persona comune, per il mondo, è un compito più semplice o più complesso? Non importa.

Spesso, quando si parla di droghe o sostanze che creano una certa dipendenza, si è soliti cadere nel residuale, in ciò che il più delle volte non è altro che retorica. Lo si fa a scuola, nei compiti di italiano o di attualità in classe. Lo si fa nei consultori, attorno a degli assistenti sociali o psicologi. Lo si fa in piazza, o al bar, fra gli amici di sempre. “Quello è un drogato”, oppure “Una volta che inizi non ne esci più”, oppure ancora “Ci puoi ricadere”. Sono frasi che si sentono dire, alle quali però non sempre segue un’affermazione diversa, più certa. È il pessimismo a regnare, a distruggere intere  famiglie, a non far vedere più un barlume di speranza.

Invece, cercando di stare lontani da altrettanta retorica, è vero pure il contrario. C’è chi ne esce, anche se non è facile. C’è chi non è più un drogato e c’è chi con razionalità e coscienza decide di voltare pagina, perché sente che quella non è vita, è morte, e decide che la vita è troppo bella per vedersela sgretolare dalle mani. Decide di afferrarla piano ma con amore. E poi ci sono le Comunità, le Accoglienze. C’è il recupero, quello rigido nei suoi programmi da seguire, che restituisce autonomia alla fine, e un nuovo entusiasmo da regalare a chi sta peggio. Ci si può sentire ancora utili per l’altro, e non c’è cosa migliore al mondo.

Piccolo racconto di un grande naufrago sulle rive della vita

A.C.  ha un carattere ch’è un mix fra l’essere silenzioso, timido e la socialità, il mettersi in gioco, nel  lavoro e nelle amicizie. All’età di un anno A.C. diventa milanese. Il papà è costretto insieme alla famiglia a trasferirsi al Nord per poter lavorare e dare un futuro ai figli. A.C. ha un fratello più piccolo, che dedica gran parte del suo tempo allo studio. Entrando nell’età adulta, viene fuori un senso di solitudine. Divengono nemici, lui e la sua solitudine, e ci si tuffa lungo abissi oscuri, ricevendo botte in facce, rischiando di perdere la vita lungo strade, rompendo guardrail,  vedendosi squartare il cranio, vedendo le mani di una mamma curare quel cranio. Un abisso cattivo dal quale A.C nonostante le onde altissime è riuscito, infine, da naufrago imperterrito, ad avvistare un’isola felice. Questa volta non più artificiale, sebbene ancora su quell’isola gli manchi qualcosa.

Una donna da amare, e un figlio da allevare. Oggi A.C. gioca a mamma e figlio con sua madre, 80enne, in una casetta nel pieno centro di Nicastro, solo che la mamma e il figlio invertono spesso i ruoli. Ed ecco avvertire la bellezza della vita al culmine di un viaggio che, indubbiamente, nessuno dei due credeva finisse mai.

Ogni tanto lo si vede girare in città, da Nicastro a Sambiase con la sua bicicletta, di ritorno dalla Comunità dove fa volontariato a quelli che non gli ricordano più del suo passato.

Ed è felice.

Perché ti racconti?

“Per eliminare le etichette. L’esigenza s’è maturata in me dopo la biblioteca vivente, un’iniziativa culturale promossa dai ragazzi del Servizio Civile lo scorso anno in biblioteca a Lamezia. Spesso si danno dei nomignoli senza vedere cosa c’è dietro.  Combatto da sempre l’indifferenza, il giudizio, di chi vede un tossico buttato per terra e tuttavia lo lascia li. Tante volte una persona cerca di mettersi in carreggiata, con fatica, ma la società ne impone un pieno reinserimento. Resta sempre lo stigma, che non è facile eliminare”.

Quale peso riveste, oggi, il tuo passato? 

“Ho fatto 2 comunità, la prima  13 anni fa al Centro di Solidarietà Calabrese, avevo 30 anni e allora sembrava che tutto mi fosse ancora concesso. Molte persone non ce l’hanno fatta… Auguro a tutti di non arrivare alla mia età con la dipendenza. Il passato ha combinato dei grossi danni con ricadute sul mio presente. Il passato ha creato danni anche a chi mi è stato vicino, alle persone care, che poi a un certo punto col passare degli anni si stancano anche loro. La seconda ed ultima Comunità è stata la Fandango, Comunità Progetto Sud, dalla quale ho imparato tanto, e soprattutto ho imparato a conoscermi.

LE PERSONE POSSONO CAMBIARE.  L’ho visto sulla mia pelle. All’età di 40 anni ho capito che bivi non ce n’erano più, e quindi ho capito che dovevo prima voler bene a me stesso e poi agli altri,  e che solo così potevo ricevere altro bene.

Il passato mi ha fatto perdere tutti i lavori. Lavori ben remunerati, impiegatizi… Quando è arrivata l’eroina è arrivata anche una doppia vita.  È durata 5 anni. Succede tutto all’improvviso, senza motivi precisi. Mi vedevo estraniato dalla società. Quei 4 o 5 compagni con cui uscivo erano andati avanti, si erano costruiti una famiglia. Ero rimasto solo. La mia solitudine non era però derivata dal circostante, ma da una fragilità interiore, più intima, di cui non è facile parlare.

Parlaci di questa doppia vita…

La sera correvo a comprare l’eroina, la tiravo per naso, e la mattina ero a lavoro. All’eroina non ci sono arrivato subito. (Prima ti compri la 500 poi la Ferrari). Ho iniziato con le semplici cannettine, è stato un passaggio graduale.

HO PERSO LE AMICIZIE PIÙ PROFONDE. Poi un periodo di vuoto. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Il futuro arriva senza che tu te ne accorga. Per 5 anni ho fatto uso di eroina, e non so come abbia fatto ad uscirne da solo.

I problemi sono sorti quando a casa si diceva che i miei sarebbero scesi giù in Calabria. 30 anni e pass in una casa smontati in pochissimi giorni per tornare giù. All’inizio non ci capivo niente, loro ripetevano che sarebbero partiti, ma io ero fatto e non sentivo, non credevo fosse vero. È stata una ‘mazzata’. I miei erano stanchi. Avevo rovinato la loro vita, la loro economia. I sensi di colpa mi divoravano sempre più.  Così sono rimasto solo, per la prima volta davvero solo, a Milano.

Io sapevo che alla fine mi sarei rovinato. Dovevo pagare l’affitto della pensione e non era facile. Avevo trovato lavoro da Pec, famosa ristorazione. Un giorno il capo di mi becca mentre rubo una bottiglia di whisky. Lì facevo il cameriere di sala. L’alcool c’è sempre stato. Il mio armadio era pieno di bottiglie.  Arrivavo a bere due bottiglie al giorno. E non bastava, perché dovevo andare a prendere l’eroina…”

Quali erano gli effetti dell’eroina i primi tempi? Com’è avvenuta la dipendenza?

“Ho iniziato a provare l’eroina durante il militare, su suggerimento di un amico. È stata un’esperienza occasionale. Facevo l’infermiere in aeronautica. Leggevo un giornale al contrario, sentivo una sensazione di confusione e benessere.

Qualcuno una volta al Maurizio Costanzo Show disse che ‘era meglio che andare con una bella donna’.

C’era una sensazione di benessere in me che non avevo mai provato. Ero certo che non ci sarei più tornato. La mia solitudine invece mi ha riportato a toccarla di nuovo a distanza di tempo. E da lì ho iniziato una seconda vita. Dovevo sconvolgermi a tal punto da andare a rubare le bottiglie di whisky. Oggi racconto la mia vita con la consapevolezza di un passato che sono certo non verrà più”.

Non c’è stato giorno che non abbia versato lacrime per capirlo.

In qualche modo l’eroina era come se fosse una compagna?

“Certo apparentemente sembra ti regali molto. Nel gruppo dei tossici A.C. veniva fatto passare avanti, perché portava i soldi, ero visto meglio dagli spacciatori. Il rischio era che qualcuno ti tirasse una coltellata addosso. Ho distrutto moltissime macchine aziendali. Poi è arrivato il “Signor C. non è più quello che conoscevamo”, e lì ho iniziato a perdere punti.  “È inutile che mette gli occhiali si vede che ha gli occhi socchiusi”. Cercavo di coprire con la storia del diabete. Ma questa porcheria ti porta a dimenticarti. Ti toglie tutto. Vedo oggi ragazzi che in comunità si mettono a disegnare, a scrivere, a comporre musica, a cucinare. Cose che durante l dipendenza si dimenticano tutte. Fino a scomparire pure il tuo nome insieme al tuo corpo. Raccontare la mia storia può essere un input, un esempio di chi ce l’ha fatta”.

Quando hai capito che ti stava distruggendo?

L’eroina tu non la vedi ma ti cambia la faccia. Quando mi guardavo allo specchio vedevo occhi spenti. Rimaneva il mio saper parlare, ma l’astinenza a livello psicologico e poi fisico ti distrugge. All’inizio pensavo di gestire la cosa, ‘un paio di volte a settimana’ mi dicevo. Ad un certo punto il tuo fisico la richiede, perché tu stai male. Quando vedi la persona che striscia non è perché sta bene, ma perché è in astinenza.

Io per mascherare dovevo essere coperto da eroina. Le mie macchine non erano più pulite come prima, puzzavano. L’eroina ti porta a non lavarti. Ti fa schifo l’acqua. Ti da fastidio anche berla.

Un giorno camminando per Garbagnate milanese scendendo da casa mia, per la prima volta mi sono ritrovato ad appoggiare la mano sul muro per andare in stazione. Iniziavo anche io a strisciare lungo la strada, cioè a non reggermi più in piedi. Allora quel giorno mi sono detto:

“Antò vaffanculo l’eroina e tutto quanto”, quel giorno ho detto “basta”.

“Ho mollato tutto quando sono rimasto solo senza niente, senza casa, senza macchina, niente che poteva più ricongiungermi a lei, a lei che mi stava distruggendo.  L’astinenza ti porta dei brividi lungo la schiena, e allo stesso tempo sudi tantissimo, non riesci a dormire. I materassi erano tutti da buttare. 20 giorni da solo a casa a Milano in cui sono stato malissimo. Dolori fortissimi, sedute continue sul water a vomitare, mi sembrava di morire”.

Ero stanco di quella vita, che non era vita.

Quale dispiacere risale a quei momenti?

Ricordarsi, al di la del benessere illusorio che può provocare la droga, cosa c’è dietro. Il dolore, cosa fai per andarla a trovare. Si superano tutti i limiti, sono arrivato persino a rubare l’oro a mia madre. Poi è continuata la dipendenza da alcool. Ho toccato il fondo più fondo che ci possa essere. Poco prima di scendere c’è stato l’incidente, l’ultimo brutto ricordo, causato dallo stupefacente. Stavo rischiando che mi imputassero una mano. Mi hanno ricoverato al Niguarda, il più grande ospedale di Milano. Anche lì conosciuto con la mia fama di impiegato, veniva qualcuno, e prendevo non solo la morfina ma anche l’eroina. Sono stato un paio di settimane, incluso l’intervento. Dopo tutte queste tristi vicende ho mollato tutto, e pur a malincuore (perché lasciavo il posto dove sono nato e cresciuto) sono sceso in Calabria.

È arrivato A. Il terribile. Dicevano in paese !

“Mio padre era sempre più stanco. Una volta sceso giù l’eroina non potevo più trovarla e non volevo più trovarla. Circondato dalla depressione di quel presente, l’alcool diventa l’unica dipendenza. Mi trovavo in un paesino piccolo, con pochi uomini e greggi infiniti di pecore. Non mi apparteneva. E poi c’era lo guardo di chi pensava ‘Ecco arrivato il forestiero’. La mia mano era invalida, avevo i fili di K, fili di ferro che escono dalle dita. Non conoscevo nessuno. A.C. era visto come un ufo. Allora mi giravo tutte le cantine e i bar, bevendo da mattina a sera”.

E poi cosa è successo giù?

“Appena sono ritornato a Milano per i controlli alla mano la prima cosa che ho fatto è stata prendere l’eroina. Sapevo che per una volta sola non ci sarebbero state conseguenze e astinenza. L’evento scatenante è stato il matrimonio di mio fratello, qualche mese dopo, sul Lago Maggiore. Quel giorno avrei dovuto leggere in Chiesa, invece me ne andai a trovare alcuni amici. Il giorno prima del matrimonio arrivo in stazione centrale e cerco la porcheria. Incontro due rumeni che mi riempiono di botte e mi derubano e il giorno dopo,  mentre mio fratello era sull’altare, io mi svegliavo con la faccia di un mostro in un letto del Fate bene fratelli. Ecco, quel giorno non me lo perdonerò mai.

Ero una maschera. Inguardabile.

Ho visto mio padre piangere. Per la prima volta. Dopo 15 giorni iniziavo a fare cose strane. A lasciare i rubinetti aperti ecc. Si trattava di un brutto ematoma alla testa. Ero in pericolo di vita. L’ematoma era esteso e non si sapeva quali fossero state le conseguenze. Dopo mesi passati in ospedale mia madre mi curava, mi puliva la testa, ma usciva puss.  Mi siringavano a crudo la testa, il dolore era estremo. Ero andato in setticemia. Un giorno il professor Signorelli mi dice ‘dobbiamo tagliare l’osso perché tu stai andando in setticemia’. Levandomi il pigiama venne via anche la fasciatura: mi feci paura. Avevo il cranio a metà.  Non sapevo se ridere o piangere. La mia disperazione era tale che continuavo a bere. Infine sono scaturite le crisi epilettiche. Ogni tanto mi era capitato di prendere valium e alcool. Le conseguenze si sono viste ricadere in un bipolarismo.

Mi trovavo in un letto di bottiglie. Era diventato un attacco di panico.

Prendevo il Gardenale e me ne andavo in cantina. Un giorno succede che bevo 3 bicchieri di vino, subito dopo il farmaco, ed ero subito fuori di testa. Non so cosa sia successo: un giorno salgo le scale di casa, e trovo tutto sotto sopra.

Scopro dal racconto di mia madre che ero stato io. Avrei potuto ammazzare anche mia madre.

Era la prima volta che avevo un vuoto di memoria. Poi i carabinieri davanti casa, infine il Tso e dritto in psichiatria. Ero con un paziente legato. E avevo paura. Un giorno mio fratello mi telefona e dice ‘se vuoi vedere tua madre e tua nipote devi andare in Comunità’. Così nel 2015 arrivo in Comunità Fandango a Lamezia Terme.

Questa volta volevo avere la certezza di una Comunità seria che mi avrebbe aiutato a lavorare su me stesso.

“I farmaci mi avevano pulito. Dapprima sono arrivato a Settingiano, poi dopo una decina di giorni a Fandango. La notte piangevo. Piangevo sempre. In Comunità ogni cosa che fai ha un senso. Ci si occupa del giardino, ci sono i turni, si cucina, ci sono le riflessioni, che non sono punizioni, e ci son pure i piatti da lavare! La Comunità mi ha insegnato a gestire i miei lati negativi. A lavorare sulla mia impulsività”.

A.C. oggi è felice con poco, esce per fare la spesa, cucina per la mamma, prende un caffè con i suoi nuovi amici, si informa su ciò che accade. Continua a pedalare la sua bici, per fare dei servizi da operatore, questa volta, presso la stessa Fandango, e pare molto entusiasta. Ha provato a fare diversi lavori, perché A.C. ha un bel curriculum di esperienze lavorative alle spalle. Ha fatto assistenza sanitaria, ha seguito e pagato il corso di Oss per diventare infermiere, ma è stato escluso per questioni di invalidità civile. Nonostante la società gli imponga ancora molti ostacoli, A.C. non si arrende. E sa anche essere un buon amico, sa ascoltare, sa rispondere senza parlare sopra, sa regalare uno spazio ad ogni buon dialogo, costruire ragionamenti di raffinata intelligenza. A.C. è oggi una persona forte, la sua integrità e la sua dolcezza sono predisposti a nuove pagine che siamo sicuri, con questa passione per la vita, non tarderanno a presentarsi.

Ringraziamo A.C. per averci concesso questo suo racconto personale  che, viste le tematiche trattate diventa però universale. Grazie per il suo coraggio di ogni giorno e per la verità.  

Valeria D'Agostino è giornalista pubblicista, curiosa del bello, amante della natura e della poesia. Ha contribuito a realizzare il Tip Teatro di Lamezia Terme, già ufficio stampa di Scenari Visibili, blogger sin dagli esordi di Manifest Blog. Ha lavorato per Il Lametino, attualmente corrispondente esterna della Gazzetta del Sud. Nell'ambito della scrittura giornalistica ha prediletto un interesse particolare per le tematiche sociali, quali in primis la sanità e l'ambiente, culturali, e artistiche. Si divide fra Lamezia Terme e Longobardi, costa tirrenica cosentina dove si occupa di turismo e agricoltura biologica. "Un buon modo per dare concretezza al concetto di fuga".

Se si vuole si può…. riprovare i sapori della vita, la menta fresca, il dolce della panna, e l’aspro del limone…ed avvolte anche qualche boccone amaro, l’importante e sentirne i sapori!!

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