Franco Costabile: l’eredità delle proprie radici – prima parte

Il percorso biografico e artistico di Franco Costabile, poeta di Sambiase (attuale quartiere di Lamezia Terme) è emblematico per illustrare la frequente lotta fra due opposti poli che spesso tormentavano e caratterizzavano l’artista e l’intellettuale del Sud Italia nel Novecento: una profonda consapevolezza e importanza delle proprie radici culturali, umane e affettive, e contemporaneamente, una lotta interiore e una fuga da realtà spesso misere e degradanti.

Egli è stato uno dei maggiori poeti calabresi, amico e allievo di Giuseppe Ungaretti; eppure la sua figura è quasi sconosciuta, oggi, al di fuori della Calabria, nel nostro Paese: come spesso accade, anche per il poeta lametino ci sono più studi all’estero che in Italia.
Si può parlare, nel suo caso, di un vero e proprio caso di “scomparsa editoriale”: dagli anni Sessanta in poi, infatti, solo la casa editrice Jaca Book ha editato le sue poesie, nella collana Quale cultura con il titolo “La rosa nel bicchiere e altre poesie”, a cura di F. Adornato, in due differenti edizioni, rispettivamente del 1985 e 1994 Questo lavoro vuole essere un piccolo spunto, per tornare a far conoscere il percorso poetico ed esistenziale di un poeta troppo presto dimenticato, nella speranza che possa servire a ravvivare un interesse a livello di studio e curiosità personale, ma anche a livello editoriale: le sue poesie meritano nuove e rinnovate edizioni critiche.
La sua vis civile e umana, espressa sulla sorte della Calabria, infatti, è diventata universale, riferibile per qualsiasi popolo oppresso, umiliato, emarginato, disilluso, in un qualunque angolo di mondo, dove i cittadini sono costretti a patire fame e malattie o ad emigrare. Recenti eventi, a noi contemporanei, lo rendono quindi attualissimo.

Franco Costabile nasce a Sambiase (ora Lamezia Terme) il 27 Agosto 1924, e si toglie la vita il 14 Aprile del 1965: questo tragico epilogo è come un simbolo atto a rappresentare la continua lotta del poeta riguardo alla sua vita, alle sue radici, al suo spaesamento da emigrante e al suo rifiuto della scrittura come terapia.
Egli non parlò mai della scrittura e della poesia in questi termini, ma è significativo che egli faccia parte di un gruppo di poeti “maledetti” (nel senso di vittime di un cattivo destino, e non in quello dei maudits francesi, caratterizzati da romanticismo, genio e vita sregolata) nati tutti in Calabria, come Lorenzo Calogero, Michele Rio, Domenico Zappone e altri, che ebbero la comune caratteristica di essere tutti suicidi. Tutti poeti e artisti molto diversi tra loro per tecnica, stile, ispirazione e passione, ma accomunati da un sentimento di forte protesta e indignazione per le condizioni degradate della Calabria e del suo popolo, condannati a subire una storica subalternità e estraneità in tutte le epoche. E Franco Costabile rappresenta forse più di tutti l’emblema di questa estraneità, nel corso della sua vita e della sua produzione artistica.
Nel corso di molte epoche, la scrittura è stata vista come una risposta ai mali del mondo, come uno strumento per dare senso a tutto quello che circondava chi viveva di arte, poesia e letteratura, e tante volte è stato un modo per dialogare con i propri fantasmi, i propri incubi, le proprie delusioni e i propri traumi. Basti pensare a uno scrittore come Charles Dickens, per il quale lo scrivere è stata una profonda forma di terapia, che ha curato i dolori presenti nella sua vita, come le difficoltà economiche, il lavoro minorile, la morte della madre e le grandi difficoltà per farsi spazio nel mondo lavorativo e letterario.
Questo non accade a Franco Costabile: nella sua produzione poetica , notevolmente “realista”, manca un aspetto fondamentale di una visione fondamentalmente realista del mondo, cioè il principio di causalità: per Costabile, il mondo è regolato dalla legge dell’assurdo, e tutto questo si può osservare nello stile stesso delle sue poesie, che parlano di cose assolutamente reali, come la vita della popolazione calabrese e il mondo che le circonda, ma con una forma stilistica scarna, ossificata, quasi pietrificata. Uno dei principali critici di Costabile, Alberto Granese, così spiega la visione della vita e del mondo che ha il poeta: “Per Costabile la realtà non è legata da un rapporto causale, cioè di causa ed effetto, e non è legata da un rapporto di causa ed effetto per-ché per Costabile la realtà è dominata dalla legge dell’assurdo: la legge dell’assurdo, la legge dell’ingiustizia, che domina le cose del mondo e, quindi, che rende assurdo questo mondo. Per cui tra le cose del mondo non c’è un collegamento di causalità, ma c’è appunto questa giustapposizione di frammenti slegati, che danno questo ritmo franto e sincopato alla sua poesia.”
Nel suo caso, quindi, c’è un rifiuto della scrittura come elemento che possa dare un senso al mondo: essa può solo testimoniare l’assurdità di ogni esistenza, l’ingiustizia che permea la vita di ognuno e di ogni popolo martoriato, soprattutto di quello calabrese, che egli racconta e denuncia in tutta la sua produzione poetica.
Naturalmente questa visione del mondo e della storia non nasce solo da una condizione palese della realtà storica in cui egli ha vissuto, ma anche dalla sua propria esistenza, che fin dalla nascita è stata caratterizzata da spaesamento, estraneità, frustrazione e ingiustizia.

Gli esordi e il primo corpus: Via degli Ulivi

Franco Costabile infatti nasce da Michelangelo Costabile e Concetta Immacolata Gambardella il 27 Agosto 1924; ma i rapporti con suo padre saranno sempre permeati da estraneità e abbandono: Michelangelo, infatti, dopo il matrimonio abbandona la moglie e il figlio che doveva ancora nascere, e si reca in Tunisia per dedicarsi all’insegnamento. Nel 1933 Concetta si reca in Africa per convincere il marito a riunire la famiglia, ma questo tentativo non avrà gli effetti sperati, anche perché lei stessa si rifiuterà di lasciare Sambiase.
Questa primissima esperienza di estraneità, abbandono e emigrazione lascerà tracce nel poeta, che vi farà riferimento in uno dei suoi primi componimenti, “Vana attesa”, pubblicato nel 1939 in Nicastro, dalla Casa editrice Nucci:

“Da tempo che non so,
come non sanno tutti alla mia età,
a casa non ritorna
il babbo amato, che la mamma sa
con tenere parole ravvivare
accanto al nonno e le ziette care
specie nella sera o quando tace
il fabbro a l’officina,
o quando ogn’altra face
si desta alla mattina.

Invan lo aspetto, intento
Ad imparar qualcosa
Dai libri della scuola, assai contento
O mentre la nonna è irosa
Per tutto quel che invola
Un simile tormento;
e quando pure ancora
abbraccio col pensiero
una figura ignota che scolora
il mio sentiero
che doman saprò.
Un mondo c’è tra noi:
tra padre e figlio:
altr’amore forse, m’altra terra certo,
dove vivere può fiorente serto.
In Tunisia che Roma dominò,
oggi ridesta col risorto Impero,
senza svegliare il cuore di papà.
Invan ne sogno la carezza
E la domando ai tanti
Che dicono: “Mio padre!”
Beati lor che sanno la bellezza
D’un vigile custode
Ovunque sono e vanno, , e la sua voce
Distinguere ben sanno;
la voce che cangiar può l’idiota:
colui che sa negar la dolce sposa
e il frutto dell’amor, sublime cosa”.

Già da questo primo componimento giovanile si può percepire la frustrazione, il dolore e la vis polemica presente in tutta la produzione del poeta lametino, che si scaglia gradualmente contro il primo scacco della sorte e dell’esistenza: la poesia parte con un dolce lamento per un affetto strappato, ma si conclude con un invettiva dura e notevolmente feroce contro il padre, che sorprende ma che mostra la forza delle passioni di Costabile, già ben presenti a 15 anni.
Egli riesce a sfogare il suo dolore mettendolo in versi, ma da qui si evince come questo non gli provochi sollievo, accettazione o consapevolezza serena, ma rimpianto, dolore, nostalgia e infine rabbia: l’ingiustizia e l’assurdità del mondo sono già ben presenti in quel suo attendere invano. E’ una profonda consapevolezza che egli accetta, ma sa altrettanto bene che non può farci nulla. Anzi, tutto questo aumenta in lui l’estraneità e lo spaesamento dovuto al non sentirsi un bambino e poi un ragazzo come gli altri:
Invan ne sogno la carezza
E la domando ai tanti
Che dicono: “Mio padre!”
Beati lor che sanno la bellezza
D’un vigile custode
Ovunque sono e vanno, e la sua voce
Distinguere ben sanno”.
Insomma, i semi dello spaesamento e della perdita delle proprie radici, connessa però alla centralità di esse, sono già stati generati.

Di Pesaro. Ho trentaquattro anni, vivo e scrivo da precario in un mondo totalmente precario, alla ricerca di una casa dell’anima – che credo di aver trovato – e scrivo soprattutto di fantasy e avventura. Ho sempre l’animo da Don Chisciotte e lo conserverò sempre!

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