Ricordo quel pomeriggio come se stesse accadendo adesso. La pioggia … noi strette sotto lo stesso ombrello…I colori di quel presepe stavano lì da almeno vent’ anni. Da che ero bambina mi portavano a osservarlo. Mi meravigliava sempre.
Era Natale ma quel presepe, si aveva la superbia di portarlo fino alla Pasqua, fino alla resurrezione, alla rinascita.
Eravamo silenziose e forse un po’ di silenzio era legittimo dopo tutte le lacrime delle ore prima, quando senza accorgermene, ero riuscita a cancellare i chilometri di lontananza che per anni avevano separato le nostre vite, riuscita a spiegarle tutto il dolore degli ultimi mesi.
Quelle statuine ben fatte, i loro vestiti intagliati con precisione artigiana e quello scrosciare dell’acqua mentre scorre. Il buio, i lampi, i tuoni. L’abbaglio della luce finale, poi tutto si spegne e ricomincia, da capo sempre uguale da più di vent’anni.
Da sempre… la storia dell’uomo che nasce e che muore.
La dolcezza di lei così inattesa eppure, dicono, naturalmente dovuta.
Non ho mai dato nulla per scontato, neanche l’amore di mia madre; sempre messo alla prova, cercato, intravisto, deluso; presente, sempre, a mia insaputa anche.
Amore complicato quello di una madre.
Potrei sputarle addosso lei rimarrebbe lì ferma. Quante volte l’ho fatto, sputandole addosso tutta la mia rabbia, il mio orgoglio di piccola donna ferita dalla sua incomprensione; eppure rimaneva lì nella sua bellezza che credevo immutabile. Alle volte, quando troppa era la mia violenza, girava un po’ il volto, quel tanto che bastava per non farmi scorgere il velo di tristezza che copriva improvviso i suoi occhi.
Amore di madre maltrattato da figlia cieca d’ira.
Amore che è amore e basta, che non chiede, che esiste e basta. Madri che urlano, che bisbigliano, che non dicono, che feriscono. Madri assenti, madri presenti, madri che ancora non sanno di essere madri, madri che sperano di essere madri, madri di figli attesi o perduti per sempre. Madri di madri.
Anche quella sera come accade, tutte le volte la pioggia decise di smettere di cadere.
Vicine come prima ma con l’ombrello chiuso, tornammo verso casa.
Si spense la luce del cielo e si accesero quelle delle case.
Mi capitava spesso di immaginarla da giovane, in quel piccolo paese isolato nelle montagne, da cui però non era difficile trovare un cantuccio da dove spiare il mare.
Quel paese che ha l’odore del pane appena sfornato da un grande forno a legna, che ha l’odore di legna bruciata, di legna di alberi di ulivi raccolti in campagna da uomini felici di sapere dove inizia e finisce il loro paese.
Potrebbero percorrerlo a occhi chiusi e arrivare alla fine e ricominciare e ricominciare e riconoscere, a occhi chiusi, le voci dei passanti che li salutano.
Perché come tutti i paesi che si rispettino anche lì si conoscevano tutti, o almeno, così mi hanno sempre raccontato.
Lei che camminava disinvolta per il ponte principale che sovrastava quello che un tempo era stato un fiume, la immaginavo bella, con indosso i vestiti cuciti a mano dalla cura e dalla pazienza di sua nonna e di sua madre; donne anche loro che oltre agli abiti le trasmisero ciò che poi divenne, essere madre.
In un paese così piccolo ma che vantava un numero considerevole di chiese, non si poteva aspirare a molto, per lo meno, nessuna di loro aspirava a molto. Tranne quello che credevano, le avrebbe rese libere e indipendenti dalla potestà paterna, un matrimonio.
Quando questi pensieri prendevano la mia mente, riecheggiavano nella testa gli echi di libri letti e appartenenti a lontanissime epoche.
Quanto buffa e distante mi appariva una simile aspirazione.
Quell’idea di matrimonio non era arrivata fino a me, si era persa, dispersa nel trascorrere del tempo.
O forse l’avevo volontariamente rimossa e sostituita con un abito in cui sentirmi più me stessa.
Ma non avevo rimosso l’odore del pane, il mare spiato, le tante chiese e la gente che ti saluta cordiale mentre cammini per strada. Queste cose le avevo conosciute attraverso lei e le avevo tenute per me preziose, mettendoci la cura che si deve a un segreto, a qualcosa di fragile come un ricordo.
Da giovane, oltre a passeggiare per il ponte, faceva parte di una compagnia teatrale, anzi della compagnia teatrale, considerando che era l’unica nel paese.
Si occupavano di portare in scena l’eterno racconto dell’uomo Gesù, dalla sua nascita alla morte. Mettevano in piedi nella piazza centrale quella con la fontana, un piccolo palcoscenico un po’ arrangiato ma molto suggestivo a vederlo, su cui dopo le consuete visite ai presepi a Natale o la processione a Pasqua, si svolgevano gli atti e tutti stavano a osservare.
Era un rito collettivo.
Il paese, anche in questo rassomigliava a molti altri, vantava una popolazione cattolicissima, in apparenza. Si potevano incontrare donne vestite di nero che portavano il lutto per il marito scomparso anche da più di vent’anni e alle quali né un matrimonio di una nipote né un qualsiasi altro tipo di festa, le avrebbe potute far andare oltre un abbigliamento che oscillava tra le tinte del nero e del blu notte.
-E’ una questione di rispetto!- si sentiva ripetere quando ne chiedeva la ragione.
Non importava se quell’uomo in vita non le aveva mai dedicato una carezza, un dono o un gesto di delicatezza e se quella donna lo aveva disprezzato per anni a causa di tutto questo.
Non importava se quell’uomo, che le aveva dormito di fianco per innumerevoli notti, non l’aveva scelto lei ma suo padre, non importava, l’idea di “rispetto” implicava che lei doveva vestire così e che tutti dovevano vedere, tutti dovevano sapere.
Perché in quel paese il tutti, spesso, contava più dell’io, specie quando era il “tutti gli altri”.
Quasi sempre anzi, sarebbe opportuno in realtà eludere il quasi, interpretava il ruolo di Maria.
Anche nella finzione si ritrovava a essere Madre.
I ruoli riprendevano l’uso degli antichi poemi omerici, ogni personaggio aveva un modo d’essere ben definito e come tale era interpretato, anche se passavano gli anni e più raramente, cambiava l’attore.
Gli attori erano così fedeli alla compagnia e al proprio ruolo che nessuno se ne stancò mai, i pochi che andarono via lo fecero perché era stata la città ad averli chiamati.
Anche allora venne Natale.
Le prove erano dure al freddo, a volte addirittura improvvisa li stupiva una nevicata, così che recitare a l’aperto, diventava scomodo e a rischio raffreddore. Ma erano temerari, la voglia di stare insieme, di fare bene e di non deludere le aspettative li incoraggiava a impegnarsi.
I giorni che li dividevano dal 24 erano ormai pochi, l’aria riempitasi di leggerezza e sacralità lasciava respirare attese.
Puntuale arrivò la sera del ventiquattro.
Le donne, i bambini, gli uomini del paese intrisi del fumo dei loro camini domestici, concludendo le consuete visite ai presepi, si ritrovarono attorno alla fontana. Il bisbiglio caotico del pubblico fu rotto dall’avvento sulla scena dell’Angelo Gabriele.
Chi era di spalle si voltò, si lasciarono discorsi a mezz’aria, si dispersero i pettegolezzi, solo qualche sparuto gruppo di ragazzini continuò a borbottare.
Lei in scena, era seduta in un angolo su una sedia discreta, avvolta da un classicissimo velo azzurro. Raccolta, in quella purezza e in quel candore che era suo e di Maria insieme, teneva gli occhi bassi.
Tra la folla, un uomo colse la sua delicatezza.
Io nacqui da quell’incontro.