Scrivere come camminare, la “conversione” delle parole

 

La scrittura ci converte ogni giorno con un nuovo dio, ci converte da noi stessi, dai nostri errori, dalle cose inutili che ci attraversano più o meno consapevolmente, e ci nutre fra illusioni e speranze.

Scrivere è come camminare.

È ricerca continua di sé e del mondo. È entrare dentro, non uscire mai, ché l’aria non manca. È toccare il profondo, quanto più infinito è il pensiero, al di là della logica. Quando si scrive è mistero avvolto dall’eccitazione, è probabilità, è abbattere la noia, i confini, le apatie. È dire a un cancro: no, non mi spaventi. È guardare in faccia la paura, imparare a non temerla, farci amicizia, riderci.

Scrivere vuol dire innamorarsi ancora delle nuvole.

Scrivere significa oltrepassare la soglia. Saltare l’asticella, quella della follia, oltre l’orrore della terribile realtà nella quale siamo fottutamente calati. È essere dannatamente dolci, fragili, belli, senza che nessuno possa sentirsi in dovere di terrorizzare. È come dire: eccomi, ingravidatemi! Ché la Gualtieri con i suoi versi su questo insiste. Divenire. Sublimare. Essere. Riconoscersi e disconoscersi. Vivere.

Giornalista pubblicista

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