Se avessi previsto tutto questo silenzio, un silenzio che riesce finalmente a non far male, madre mia, avrei forse versato qualche lacrima in meno alle tue spalle. Ma sai, e lo sapevi… facile non è abituarsi a non piangere più. E per venirmi incontro il mondo intero s’è ammalato, si sta ammalando, proprio come è successo a te. Come succede da ‘ste parti e come sempre succederà. L’avresti mai detto che proprio io, con le mie deleterie abitudini, sarei rimasto chiuso in casa per giorni e giorni? Io che, finché il buon senso non ha prevalso, continuavo a ostinarmi e a uscire anche per soli dieci minuti solo per poter tornare a casa con la stessa sensazione di sempre? Già, la mia coscienza me lo ha imposto per tanto tempo e non credere che non me lo imporrà ancora, quando tutta questa storia sarà finita: le menti patetiche, come le mie, non faranno mai a meno della loro dose serale di brividi lungo la schiena, di pugni lanciati per aria e di bestemmie. D’altronde ancora adesso non trovo un buon motivo per stare a casa: se dopo averti accudito per una giornata intera, tu stessa, dai tuoi dolori e dalla tua flebile voce, mi imponevi di uscire per “svagarmi”, per staccare la spina anche solo mezz’ora, per “non pensare a te”, come dicevi tu con incauto ottimismo… perché mai, ora che ogni muro e ogni angolo di casa lamentano la tua mancanza in silenzio, senza far troppo rumore sulla tua scomparsa, dovrei rimanere a casa? E non c’è pioggia, vento, burrasca che tenga. Io almeno i miei venti minuti fuori, solo per risalire le scale a notte fonda e immaginarti ancora là, a dormire a fatica, ma comunque a dormire su questo mondo, devo farmeli.
Ma questa volta ho dovuto cedere anche io. Pare che tutto il mondo si stia fermando, lentamente. Checché ne possano dire, cara mia, quanti vorrebbero ingenuamente continuare la vita di sempre, ergendosi a improbi garanti di un individualismo sfrenato. È probabile che un giorno, rileggendo queste righe, non ricorderò poi così tante cose di questa pandemia. Infatti, quel piccolo spirito di autoconservazione che tutto sommato mi è rimasto, tra un vizio e l’altro, mi impone, e in un modo del tutto naturale, l’amnesia istantanea di ciò che sconvolge il mio equilibrio quotidiano. E le cose che rimarranno, invece, saranno le cose veramente buone. Poco importerà, allora, se un maniaco della fretta come me, uno che si sente perennemente in ritardo e in dovere di dover recuperare chissà quante incombenze, non avrà combinato praticamente nulla di utile e di concreto in queste settimane. Mi rincuora, anzi, sperare che in realtà anche gli altri “combattenti del quotidiano” riescano forse a fare ben poco rimanendo chiusi in casa… in attesa. Già, perché come sempre è l’attesa il problema principale.
Anche se, in effetti, per una volta l’attesa e la fretta non mi colpiscono. Credo sia per via della nostra “avventura”, tu che dici? Voglio dire, per due anni, lunghi una vita e brevi quanto un battito di ciglia, la nostra è stata tutto sommato una sorta di “quarantena” in mezzo al mondo. Ne ho scritto già e ancora, forse, ne scriverò: siamo riusciti, e sarò sempre fiero di questo, a non cadere mai nel buio più totale, nel lugubre girone dell’Io, ma siamo invece usciti allo scoperto. Abbiamo urlato, pianto, riso; abbiamo mandato al diavolo quanti se lo meritassero senza manco pensarci due volte, abbiamo perdonato qualcuno che sembrava imperdonabile, ci siamo levati via parecchi sassolini dalle scarpe per lanciarli insieme via, nell’acqua del mare, a far la gara a chi riuscisse a fare più saltelli con il proprio sasso.
Madre mia, che riesci a mancarmi totalmente e allo stesso tempo a scomparire dai miei pensieri perché riesci quasi a esserci ancora, in qualche modo, qui nelle mie notti più insonni. E nei mattini più anonimi, tutti uguali, in fila indiana. Quanto manchi al risveglio! Nei cinque minuti che intercorrono tra il passare dal profondo Morfeo alla rinascita di ogni giorno, con i suoi caffè che non hanno più lo stesso sapore, con i suoi occhiali sempre macchiati, con il suo alito puzzolente e il suo spazzolino da denti al quale fa ancora compagnia il tuo.
È successo… non dico così, all’improvviso, dal giorno all’altro, ma è comunque successo con una celerità da far spavento. E i nostri giorni di pandemia si susseguono tutti uguali, l’uno dopo l’altro, certo ricchi di piccole e gioiose distrazioni. Ricchi di esperimenti culinari, di esercizi d’adattamento, di riscoperte di vecchie letture e di scoperte di nuove interessantissime parole. Se non fosse che di questa quarantena ne parlano in tutto il mondo, in tutti i telegiornali… se non fosse che questa quarantena la stanno vivendo tutti, amici e nemici, parenti e serpenti… non sarebbe poi così tanto diversa per noi da quella che abbiamo orgogliosamente vissuto insieme. Certo, se nell’arco di una giornata passo la maggior parte del tempo distraendomi, devo pur dedicarmela quella decina di minuti di cinematografia mentale, no? Mi diverte immaginare di averti ancora qui, con noi, nella nostra “zimbicella”, o “casa delle bambole”, come la chiama qualcun altro. Saremmo ancora più stretti di quanto non lo siamo adesso; ancora più vicini. Mangeremmo di gran lunga molto meglio, e avremmo tanti bei motivi per attendere di uscir fuori. La nostra ansia sarebbe stata molta, e sarebbe stata ampiamente giustificata: ci sarebbero aspettati tanti progetti, tante idee. Ti avrebbero aspettata tanti bambini, a scuola. A me, al massimo, qualche esame da fare in più rispetto ad ora. Ma, di sicuro, con molto esaurimento in meno.
Ma non ci sei. Fuori dalle mie preghiere, fuori dalle mie parole a mezza voce, fuori dalle mie smorfie e dalle mie occhiate interrogative alla tua fotografia sul mio comodino… non ci sei. Di conseguenza non posso aspettarmi poi così tanto, là fuori. Non è senza ripensamenti continui che lo dico, non senza dubbi, mestizia o rimorsi, ma… di altri colori si tingerà il mondo, quando finalmente usciremo di casa. Di colori più spenti. Forse ricorderemo solo le gioie più belle dell’infanzia e nulla di queste follie del presente. Se tu non ci sarai, nient’altro ci potrà essere. Ma già so che potrò essere smentito. E forse contribuirai tu stessa a smentirmi.
Non vorrei certo offrirti solo queste parole intrise del peggiore spicciolismo (n.b. sai, ultimamente ho deciso di non spendere troppo tempo a cercare le parole “giuste”, se mi vengono in mente parole che non esistono le scrivo comunque). Ma è pur vero che questi fogli restano sempre più bianchi, vengono sporcati sempre meno. Le penne, i colori, le matite, i temperini e le gomme… chi le tocca? Sono ancora là, negli astucci che riempivi abilmente tu, di tanto in tanto, perché “potranno sempre servire prima o poi”. Quindi, che facciamo? Era un po’ questa l’idea che mi era venuta anche per la stagione teatrale di quest’anno: visto-che-respiro… che facciamo? Finta di nulla? Beh, no, certo. Sarà meglio scrivere lo stesso, sorridere lo stesso. Cos’altro abbiamo fatto noi se non vivere comunque? Lo so, gli ideali di un uomo sono ben altra cosa. Quelli di una madre come te, poi, quasi irraggiungibili: vedere i propri figli felici. E nella speranza di averla condivisa un po’ di felicità, tutti insieme, in ventotto miseri anni, in questi ottanta metri quadrati, in qualche ettaro di terreno, in una casa di campagna sempre sporca di cenere e fulijine… provo a riprometterlo a me stesso.
Lo so, i morti, le bare, i respiratori, i ventilatori, i polmoni appesantiti, l’affogarsi, i vecchi, i più giovani… mica è roba nuova. Ma credo veramente che, per una volta, non possiamo far altro che rimanere a casa. Tutti piccoli, nelle nostre case. Perché non è attesa passiva, ma è il vero essere attivi in tutta questa brutta storia. Di brutta storia in brutta storia, madre mia, il mondo forse non cambierà mai del tutto. Non per noi uomini, almeno. Ma è anche giusto saper vivere di “nonostante”. Perché anche se non soddisfatti, quassù nessuno è ricompensato. E allora che ne pensi di una “felicità-nonostante”? Proprio come mi hai insegnato tu, ruggendo come un leone quando ti hanno dato dell’agnellino e cantando come un dolce usignolo quando infuriava la guerra.
Poco importerà, allora, se le parole saranno sempre più disordinate. Inventeremo un nuovo ordine. Se non ci soddisferanno mai… le renderemo comunque pubbliche. Le revisioni definitive ci spaventano. Se dovremo stare a casa, da casa continueremo a vivere e a esprimerci. Se potremo tornare fuori, torneremo a salutare il sole che triste andrà a riposarsi, dopo una lunga giornata estiva, dietro l’ombra di Stromboli. Se perderemo qualche amico… lo lasceremo andare per la sua strada, perché bene gliene abbiamo voluto parecchio. Se poi lo ritroveremo, sarà una nuova rinascita. Se sarà ancora pandemia, lotteremo ancora. Ognuno nel suo piccolo recinto. Ché in fondo lo sappiamo: nessuno chiuderebbe le porte del proprio cuore se non con l’idea di poterle riaprire, un giorno.
Tu rincuorami ancora una volta. Ché ho troppa paura di ammutolire. Capita, quando hai letto troppe tristi storie. Qualunque esso sia… torneremo a inventarcelo un futuro.
Vive a Lamezia Terme, legge e scrive dove gli capita. A tempo perso si è laureato in Beni Culturali e in Scienze Storiche, a tempo perso gestisce il blog Manifest e a tempo perso è responsabile della Biblioteca Galleggiante dello Spettacolo del TIP Teatro. Di fatto, non ha mai tempo. Ha esordito nel 2023 con il romanzo "Al di là delle dune" (A&B)