[di Domenico B. D’Agostino & Elisa Longo
ph: Aldo Tomaino]
[E.] I
Delle case mi piace
la continenza,
la vita che si rannicchia
sulle stuoie.
Il modo garbato
di illudere lo spazio,
addomesticare il grido,
razionalizzare lo scenario.
Delle case mi piacciono
i balconi chiusi:
la tiepida luce frastaglia
le storie abortite,
le minuscole sedie lasciate fuori
dove tu non sei.
Da sotto, dalle strade
ricostruisco,
riesco ancora a immaginare.
Delle piogge e rumori
e attese di gennaio
mi piace la pace
che pure si affretta
e che da stanze inverdite
di muschi e licheni
si stende infinita.
Ma io, che la sento e la
onoro, da buono credente,
comincio a tradirla,
a farla stancare
di case raccolte
con cose a rinfusa:
a volte la soffro,
la smania di uscire,
quasi che dopo
aver chiuso la porta
mi colmi la colpa
dell’esser partito.
[D.] IV
Qui è dove le ossa
dolevano: due fulgide
lungaggini di carne,
per tempi in cui stringere
non significava nient’altro
da sé. Dei teneri abbracci,
di vaghe respinte, di mani
callose, di paste e di pani.
Su queste e su altre utopie
si gettano a freddo profonde
fessure, le due fondamenta
delle nostre case, i muri
portanti, i tetti all’antica,
le scale negate. Non è monocorde
questa nuova vita: è che gira
la terra, nelle nostre teste.
Da quando sei triste
c’è sempre la guerra.