“I mille morti di Palermo”. Memoria e ricordo

Antonio Calabrò, ieri 17 giugno, nell’ambito del festival di Trame (Lamezia Terme) ha presentato il suo ultimo libro “I mille morti di Palermo”.

Calabrò racconta nella sua opera la guerra di mafia che ha insanguinato il capoluogo siciliano negli anni ’80 sino alle stragi del ’92. Secondo il giornalista e saggista, anche se oggi non è più in atto la mattanza, come lui stesso la definisce, non bisogna pensare che il pericolo mafioso sia scampato, né tanto meno che la mafia silente non cerchi di influenzare comunque la politica, riuscendoci in molti casi, o le attività economiche della regione e non solo. Tra l’altro siamo alla presenza di una mafia nemmeno troppo silente, come testimonia il tentato attentato al presidente del parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, e gli incendi dolosi che in questi giorni hanno funestato la Sicilia, quasi sicuramente appiccati dalla criminalità organizzata, per rendere edificabili terreni coperti dai boschi. Sempre per rimanere in tema di attualità, Calabrò critica l’intervista di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina. Lo fa, non tanto per il fatto che gliel’abbia fatta, quanto piuttosto per le modalità, che non hanno compreso domande scomode per il figlio del boss. Bisogna infatti stare attenti a non permettere alla mafia di mitizzarsi o di narrare una propria storia irrealistica piena di edulcorazioni o peggio ancora di mitizzazioni, quali appunto la favola dell’uomo d’onore che ha dei principi o dei valori a cui si attiene scrupolosamente. La mafia, e gli uomini di onore che la costituiscono, ha come unico principio quello di fare soldi, e per fare questo tradiscono e compiono atti di una crudeltà inimmaginabile. Per impedire che ciò avvenga, lo storico o il giornalista di inchiesta, deve costantemente ricostruire ciò che è avvenuto o ciò che sta accadendo, e in tal senso, ancora, un libro come “I mille morti di Palermo” ha un senso, per impedire che non si dimentichi. Bisogna raccontare e ricordare, perché dimentica chi ha un passato vergognoso con il quale non vuole fare i conti. Invece i conti vanno fatti, almeno per due ragioni. La prima è che ciò che è avvenuto non si verifichi più, la seconda è per onorare quelle tante vittime che pagarono con la vita per il solo fatto di essere stati onesti. A tal proposito Calabrò ricorda l’omicidio di Pier Santi Mattarella il 6 gennaio dell’80 (il fratello dell’attuale presidente della Repubblica) personaggio di spicco della DC e possibile erede di Aldo Moro, trucidato dalle Brigate Rosse nel ’78. Mattarella è stato ucciso perché voleva governare bene la Sicilia, senza compromessi sporchi. Tra l’altro non si sa ancora chi materialmente lo abbia ucciso, e forse non si saprà mai.

Nel racconti di Palermo di quegli anni, c’era un morto ammazzato ogni giorno. Per cercare di fronteggiare la situazione nell’86 a Palermo si apre il maxiprocesso, che cerca di ricomporre in un unico quadro gli innumerevoli atti di violenza causati da Cosa Nostra. Fu un processo fatto bene, con una cura estrema nella forma, così che la maggior parte delle sentenze furono confermate in Cassazione. Fu un esempio virtuoso di come vada fatta la lotta antimafia, senza spettacolarizzazioni eccessive (spesso c’è da dire che sono i mafiosi stessa a volerla per diffondere il proprio mito o divulgare messaggi più o meno cifrati) che gettò le basi per i processi antimafia successivi. Insomma “I mille morti di Palermo” è sicuramente un libro da conoscere, soprattutto per le nuove generazioni, che devono sapere, per impedire, che il virus mafioso si diffonda nuovamente. Esso è latente, da segnali di ripresa, forse già sta facendo il suo sporco gioco, perché come si sa molto spesso se la mafia non uccide è perché sta facendo affari. Essa va quindi contrastata sul nascere, prima che dilaghi. Soluzioni perché ciò non avvenga? Sicuramente alto senso civico, buona informazione e lotta alla corruzione. Purtroppo, in anni come i nostri in cui c’è carenza in tutti questi tre fattori e in cui si osserva un’estrema debolezza dei partiti politici, diventati meri cartelli elettorali, o, peggio ancora, semplici consorzi di affari, c’è da temere il peggio.

Il poeta non è altro che un canale, un medium per l'infinito, che si annulla per fare posto a forze che gli sono immensamente superiori e, per certi versi, persino estranee. D'altra parte chi sono io di fronte al tutto, ma al contempo, cosa sarebbe il tutto senza di me?

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