“BARACCHE, VITE DI RISERVA”
“Baracche, Vite di Riserva”. Questo sarebbe stato il titolo del progetto presentato in Regione, e respinto dalla stessa con un punteggio inferiore alla media. Che poi l’inferiore alla media sia stato cambiato di giorno in giorno a seconda dell’assessore di turno, o a seconda del progetto di Tizio o di Caio o di Sempronio, o delle Lobby politiche che si sono volutamente trovare di mezzo, poco importa! Baracche, Vite di Riserva, proprio per rimandare a quel progetto antico, di cui gli abitanti di Curinga tuttora non ricordano l’origine preciso, quel progetto di vita, naturale e antropico che fino agli anni 2000 portava l’intera popolazione curinghese e gli emigrati provenienti dal Canada e da altre zone d’Italia, a trasferirsi in marina, a costruire delle baracche, dei rioni, e a dialogare, continuare a conoscersi, socializzare così, d’estate. Il progetto respinto dalla ‘Signora Regione Calabria’ non sarebbe voluto essere niente altro che un rimando, di riflesso, a questa tradizione, con la realizzazione di un festival di cinque giorni, strettamente letterario, teatrale, ambientale, culturale insomma.
Le baracche, inoltre, non sarebbero state infinite (solo un paio) e sarebbero rientrate nell’idea di marketing territoriale di cui quel posto dispone. È successo che l’altra sera mentre tornavo a casa dal mare, e mi trovavo il rosso e l’arancio misto al blu scuro divenire in nero in cielo del sole dietro le spalle appena tramontato, e iniziava a fare fresco, col vento che s’innalzava pronto per dare spazio ai temporali, sulla Statale 18, la pennetta inserita in radio trasmetteva delle voci…Una vecchia registrazione di Radio3 che i ragazzi di Costa Nostra avevano ceduto a me e agli altri, come materiale di studio e di ricerca in vista del progetto, dove il professor Pietro Monteleone, di Curinga, si raccontava ad un giovane giornalista, a proposito della tradizione delle baracche. Il mio primo segnale è stato quello di cambiare frequenza, togliere via la pennetta, mettere musica, un Leonard Cohen per esempio! Insomma qualcosa che potesse rilassarmi, se non altro che potesse abbandonare l’inquietudine e i pensieri negativi rispetto gli esiti tanto attesi e poi altamente deludenti del progetto regionale. Poi, tutto a un tratto rimango folgorata dalla voce del giovane uomo che pone, più che domande, delle riflessioni a Monteleone. Parla un linguaggio semplice, ma profondo, le sue parole sono intrise di significati diversi e sono estremamente affascinanti, poetiche. Tutto a un tratto, dunque, lungo la Statale 18, all’altezza dell’Euro Lido, a Falerna Marina, inizio a fare un viaggio ad occhi aperti, un tuffo nel passato, quel passato che io non ho mai vissuto, lì a Marina di Curinga, ma che invece riaffiora, e che riesco a vedere benissimo, davanti a me, sulla strada, grazie all’intensità di quella intervista. Allora mi accorgo che la memoria è più forte di qualunque altra cosa, fa battere il cuore, fa venire un brivido lungo la schiena, è potente nel pensiero, e genera forza e passione.
Quel giovane giornalista era Sandro Onofri. Allora, non cambio più frequenza, lascio la pennetta in radio, abbasso il finestrino e inizio a respirare l’aria fresca delle 20.30 di sabato 6 agosto 2016 e penso al tempo. Oggi, le baracche non ci sono più. Dal 2000 non ci sono più per volere di qualcuno, e non si conosce bene il motivo. Oggi però, le associazioni ambientaliste del posto sono formate da un gran numero di giovani pieni di sogni, d’energia, i quali sarebbero stati felici di poter fare un’altra intervista con Sandro Onofri, a proposito di tutto ciò che stanno realizzando, felici di poter raccontare del loro piccolo atto di resistenza lì, sulle dune dell’Angitola, della salvaguardia del patrimonio paesaggistico, della pulizia spiaggia volontaria durante tutto l’anno, delle analisi delle acque contro il rischio ambientale marino, del controllo sociale sempre in aumento, del coinvolgimento della popolazione, dei messaggi culturali, del bar che i ragazzi di Costra Nostra costruiscono in pochissimi giorni, dei tornei a beach volley, e beach soccer, dell’ecologia teatrale, dei concerti in spiaggia, del campeggio, della condivisione di cibo, del gioco di squadra, dell’armonia e della perseveranza, di braccia e di gambe pronte a lavorare sotto il sole. Del sudore condiviso, del ricordo delle ‘baracche’ sempre vivo, dell’eco dei ricordi e delle nostalgie dietro un sorriso sincero.
Sandro Onofri racconta: La Calabria che non fa cronaca da Cento lire, (Radio3, 1999)
“CURINGA UN PAESE IN SPIAGGIA “
Intervista al Professor Pietro Monteleone, docente di Curinga, a cura del giornalista Sandro Onofri scomparso nel 1999 ma ancora vivo nei cuori di tutti coloro che hanno avuto l’onore di conoscerlo.
Ecco. È questa la sensazione che si prova nel raccontare questa Calabria laboriosa e silenziosa: la sensazione che il futuro è dietro l’angolo, vista l’energia dei suoi cittadini. Ma c’è un pericolo, e cioè che tutto questo potrebbe avere l’aspetto accogliente di un monolocale con video citofono e vista sul mare. Ecco cos’è, il futuro è insieme una speranza e una minaccia. La Calabria fa gola agli speculatori per la sua bellezza, accoglierebbe turisti a mandrie, ma la gente di qui non vuole perdere la sua terra, tanto più che sono rimasti in pochi, qui, a difenderla…Eccola lassù, Curinga, un paesino agricolo di 10.000 anime circa, incollato a mezza costa fra le colline di Lamezia. Da tre secoli suppergiù gli abitanti del paese usano scendere a mare, e si sistemano su quel pezzo di spiaggia che d’inverno vedono sparire dall’alto sotto le mareggiate. Un’usanza le cui origini sono un po’ offuscate. Sentiamo, Pietro Monteleone, insegnante e studioso delle abitudini di vita della propria gente…
“Quali siano le cause si possono fare solo delle ipotesi…certo è che nella lingua, se vogliamo vedere la lingua, il dialetto calabrese come sintesi della cultura, come manifestazione più estrema della cultura di un popolo, non esiste la parola vacanza, né esiste un termine che faccia pensare al riposo, c’è quasi una forma di pudore, a parlare di riposo, di ferie di vacanza. Tant’è vero che l’espressione tipica che si rivolgeva a coloro che rientravano dal periodo trascorso a mare era ‘Ti coliru i bagni?’ che tradotta in italiano era ‘Ti hanno giovato i bagni?’. La motivazione esplicita, se fosse l’unica vera non possiamo dirlo, era di pensare il periodo a mare come una forma di talassoterapia”.
Tutto il paese, dunque, scende alla marina. Costruisce baracche di legno, che una volta erano capanne di canne e frasche, e lì si sistema fino a Settembre, quando tutto il villaggio viene smontato pezzo per pezzo e riposto nei garage delle cantine su in paese in collina. Si tratta di una ‘tradizione’ che l’emigrazione non ha cancellato, e che anzi ha rinvigorito, visto che la spiaggia fa rappresentare il punto di ritrovo, la rimpatriata, l’occasione per rientrare e ritrovarsi per tutti coloro che sono stati costretti a partire, e insieme l’impegno è non mancare mai a questo appuntamento. Forse, in nessun’altra regione d’Italia l’emigrazione ha segnato la vita delle famiglie come in Calabria. Qui, i contatti, anche al di là dell’oceano si mantengono vivi e continui. Il senso d’appartenenza alla Calabria, ha ancora una potenza incredibile, i muri sono pieni di annunci funebri, di persone decedute a Toronto, o negli Stati Uniti, il traffico estivo all’aeroporto di Lamezia è costituito in gran parte da persone che arrivano e partono per il Canada, l’Australia o il New Jersey. Gli emigrati tornano di continuo, portano diversità ed esportano la Calabria. La spiaggia di Curinga, dunque, è da sempre il paese ricomposto. Le baracche vengono sistemate secondo criteri che tendono scrupolosamente a favorire la vita di comunità. Verso il mare stanno le verande, mentre le cucine si affacciano tutte sul retro, con le porte rigorosamente allineate in modo che dalla prima l’occhio possa perforare per tutto il villaggio per quanto è lungo, circa 2 km, fino all’ultima abitazione, in una situazione di comunione di cibi, vini, di frutti, senza distinzione di estrazione sociale o di provenienza.
“Fino a non molti anni fa, ci si stanziava dove si trovava spazio, però sempre rispettando questa collocazione: una accanto all’altra, sempre con le cucine lungo quella fila. Sarebbe stato un atto di scortesia fare la cucina un po’ più indietro, o chiudere la porta della cucina, quasi a non farsi vedere. C’era un obbligo alla socializzazione. Era un fatto obbligato. E ci si metteva dove si trovava posto, poi piano piano è venuta fuori l’abitudine di segnare un posto. Si andava ad esempio in primavera e si metteva un paletto, o qualche altra cosa, ed era come dire ‘ Qui mi piazzerò io’. Ci si ritrovava così, accanto ad un’altra famiglia di Curinga, che magari non era la famiglia dello stesso rione del paese. Era quindi occasione affinché nascessero amicizie, legami, e all’interno di questa lunga teoria di baracche si creavano i Rioni”.
C’è persino chi come l’ex sindaco di Curinga ci tiene a costruirsi la baracca più bella di tutte, con la staccionata sulla spiaggia e la veranda col pavimento di legno, ci mette tutto il mese per finirla, monta l’ultimo palo per ferragosto e dopo una settimana la deve smontare tutta. Ma lui è contento lo stesso e va in giro per la spiaggia tutto orgoglioso invitando gli altri ad ammirare il suo capolavoro.
“Intanto c’è anche una questione di carattere culturale, nel senso che anche all’interno della comunità curinghese c’è un considerevole numero di cittadini che non si riconoscono più in questo tipo di insediamento e lo vedono quasi come una specie di ostacolo alla possibilità di uno sviluppo turistico di tipo nuovo e forse più produttivo. C’è un forte nucleo soprattutto a Curinga Centro, e anche tra curinghesi che vivono fuori, che invece è rimasto solidamente attaccato a questo tipo di insediamento, tant’è vero che dagli ultimi dati sull’insediamento dell’anno scorso risulta che abbiamo non solo gente di Curinga, ma anche gente che vive a Roma, Torino, e in altre zone fuori dalla Calabria, che durante l’estate tornano per farsi la baracca”.
Ora, un’usanza così semplice non poteva non farsi parecchi nemici. Immaginiamo il quadro. Più di 1 km di baracche sistemate su un tratto di spiaggia, in uno dei posti più belli del Mediterraneo. Non è una cosa da far sbavare di rabbia gli speculatori? Coloro che lì su quel tratto di sabbia e mare potrebbero costruirci una Miami fatta di alberghi, pub e discoteche, di cui si nutre il turismo di massa dei nostri tempi? È infatti, ecco quanto racconta Pietro Monteleone.
“Il pericolo, se così si può dire, è stato costituito nel passato da questo tentativo di andare verso un insediamento di tipo diverso, tradizionale, nel senso di turismo moderno, con impianti di altro tipo, e quello che mi sorprende, ad esempio, è che le associazioni ambientaliste che molto spesso fanno denunce sulla cementificazione della costa calabrese, non si siano mai curate di segnalare quello che di positivo c’è, cioè la presenza di un tratto di costa non cementificato e di capire perché questa non cementificazione. Bisogna interrogarsi sul ruolo che ha giocato tale insediamento, altrimenti si rischia di vedere soltanto il residuo di un’usanza barbara, come qualcuno ha detto, associata ai nomadi, o qualcosa del genere. Spesso non si colgono gli aspetti positivi, e sul piano dei rapporti umani e culturali, e nella peggiore delle ipotesi, come difesa, come mantenimento. Di fatto, oggi, chi prova a fare una carrellata da Reggio a Scalea, noterà come non ci sia un tratto di costa così lungo senza la presenza del cemento”.
Oppure, anche senza voler arrivare ai grossi speculatori, non pensate che il gusto contemporaneo, cresciuto su un’estetica dei ricatti dell’ordine e della comodità, possa storcere la bocca di fronte a quella stesa di baracche che sanno troppo di semplicità? Persino di povertà? E infatti, già nel 1973, arrivò dalla Procura della Repubblica di Lamezia Terme, un ordine di confisca della spiaggia, con la scusa di svolgere un’indagine tendente all’accertamento di eventuali fenomeni speculativi verificatesi sul litorale del lametino. L’ordine fu poi replicato nel 1992, quando addirittura si presentarono sulla spiaggia blindati con camionette di polizia. Ma il paese reagì in modo compatto, ricorse alla stampa e alle associazioni ambientaliste, e infine con un decreto comunale, prese dal demanio la concessione del tratto di mare per farne formalmente un campeggio, e così con trucchi burocratici e pezzi di carta, Curinga può per adesso continuare la sua antica vita.
“C’è stato questo episodio di ‘repressione’, di questo fenomeno, nel senso che le baracche sono state sloggiate nel 1992, dall’oggi al domani, in seguito ad un intervento che la Magistratura ha fatto su tutto il litorale, e il problema è questo: quell’episodio, era in un quadro di intervento contro l’abusivismo edilizio sul litorale ma, mettendo sullo stesso piano la costruzione abusiva di Falerna, ad esempio, o di Gizzeria, e questi insediamenti che sebbene abusivi non costituiscono un’appropriazione del litorale, ma un’appropriazione del territorio nel rispetto assoluto, tanto è vero che poi viene lasciato nelle condizioni originarie. Quando mi riferivo alle associazioni ambientaliste, volevo sottolineare che non basta da parte delle associazioni ambientaliste attaccare la cementificazione, perché? Perché questo significa schierarsi dalla parte di un naturalismo astratto, cioè che non fa i conti con la storia. Ogni civiltà ha il diritto di utilizzare il territorio. Il problema è il tipo di utilizzazione che si fa. Allora se è giusto porre in risalto l’aspetto negativo dei guasti, che si provocano a un territorio attraverso alcuni tipi di insediamento, secondo me bisognerebbe riconoscere anche la dignità ad altri tipi di utilizzazione del territorio”.
Ma forse, è il caso di fermarci un po’ e trarre qualche riflessione su questa spiaggia che in questa stagione è ancora vuota. Fra tre mesi ci saranno già le baracche, ma adesso no, adesso è solo sabbia chiara a perdita d’occhio. Riflettere, dicevo, su come un fatto pur così piccolo di cronaca locale, di un piccolo paesino del Golfo di S. Eufemia, riesca a racchiudere in sé i segni più essenziali del nostro tempo. Le contraddizioni di un’epoca intera, con le sue illusioni e i suoi fraintendimenti, perché qui a Curinga si sta per la millesima volta imponendo un grande dilemma del nostro secolo, e che la società di massa tende ferocemente a rimuovere, quello che il grande antropologo Ernesto De Martino espresse con queste parole: “Alla base della vita culturale del nostro tempo sta l’esigenza di ricordare una ‘patria’ e di mediare, attraverso la concretezza di questa esperienza il proprio rapporto col “mondo”. Coloro che non hanno radici, e sono cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell’umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l’opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale”.
(Un grazie particolare al professor Vito Teti per i suoi racconti, per la scoperta continua e vitale con cui nutriamo il nostro senso critico e la nostra curiosità. Le foto sono state estrapolate dal video youtube di Costa Nostra, Le baracche di Curinga).
Valeria D'Agostino è giornalista pubblicista, curiosa del bello, amante della natura e della poesia. Ha contribuito a realizzare il Tip Teatro di Lamezia Terme, già ufficio stampa di Scenari Visibili, blogger sin dagli esordi di Manifest Blog. Ha lavorato per Il Lametino, attualmente corrispondente esterna della Gazzetta del Sud. Nell'ambito della scrittura giornalistica ha prediletto un interesse particolare per le tematiche sociali, quali in primis la sanità e l'ambiente, culturali, e artistiche. Si divide fra Lamezia Terme e Longobardi, costa tirrenica cosentina dove si occupa di turismo e agricoltura biologica. "Un buon modo per dare concretezza al concetto di fuga".
2 commenti
Aggiungi il tuoBellissimo articolo che ha risvegliato in me dolci amari ricordi…
Per come sono andate e stanno andando ancora le cose circa la nostra spiaggia ho le visceri che mi bruciano e non trovo alcun rimedio !