Sulla desolazione culturale di questi anni

Viviamo in un panorama culturale desolante. Ma la colpa non è del pubblico, della gente comune, dei ragazzi o di chi non ha una laurea o un titolo accademico. No, la colpa è degli operatori culturali, degli intellettuali, degli scrittori, dei poeti, degli artisti. Oggi non si produce più un sapere critico, aperto, che si vuole fare intendere da tutti. No oggi si produce o spazzatura, realizzata solo seguendo le tecniche del marketing; o sapere autoreferenziale ed accademico. Ebbene se ciò è comprensibile in settori strettamente specialistici come l’ingegneria, la medicina, la matematica, non è accettabile in altri ambiti quali la filosofia, le lettere, il cinema, l’arte, la storia. La specializzazione è una delle maggiori responsabili per questo stato di cose. Oggi ci sono specialisti per ogni cosa. Per i capelli, per gli escrementi, per i sassolini, ma pochi o nessuno che si preoccupa più della salute dell’uomo, della sua vitalità, delle sue aspirazioni, delle ingiustizie sociali, delle contraddizioni dei tempi in cui viviamo, delle aspirazioni per una libertà autentica, per un progresso che non sia solo quantitativo, ma anche e soprattutto qualitativo.

L’uomo è abbandonato a sé stesso. È normale che in un contesto così desolante, di cui i colpevoli principali, non ho remora di dirlo, sono gli intellettuali, si affermi la follia di un mercato cannibale o di fedi religiose del tutto irrazionali che esaltano la morte ed il martirio. C’è un vuoto di senso, che sembra poter essere colmato solo dal consumismo più spinto e dalle varie forme di fondamentalismo. Ma gli intellettuali cosa fanno? Nulla. Pensano solo ad appagare la propria vanità acquisendo titoli e prestigio. All’università si citano a vicenda solo per aumentare il numero delle pubblicazioni. Non si riflette, ogni riflessione sembra solo rivolta ad una visione pessimistica e rassegnata della vita. Eppure non fu sempre così. Lo dimostra il fatto come in passato i grandi film e le grandi opere letterarie fossero a fruizione di tutti. Parlavano un linguaggio semplice ma raffinato. Utilizzavano l’ironia per poter dire cose che oggi un’autocensura intollerabile non permette più di dire.

Manca il coraggio di essere scomodi ed inattuali, in virtù di un malinteso pragmatismo. Io non ho niente contro quest’ultimo, anzi penso che sia necessario. Infatti non ha senso produrre un sapere che non sia utile a qualcosa. Ma questo qualcosa non viene declinato bene. Si intende per utilità quella più semplice, quella che si adatta maggiormente ai tempi. Ma quali sono i tempi? I tempi possono essere qualsiasi cosa, siamo noi che creiamo i tempi, in particolare le élite dei pensatori. E se i tempi sono divenuti così gretti, banali e meschini la colpa è delle cosiddette élite del sapere, prima ancora che dei politici o degli operatori economici. Viviamo in un decadentismo culturale orripilante. Non si riesce più a trovare un film decente e anche i film di qualità spesso sono troppo poco accessibili. Lo stesso si può dire per le opere scritte o figurative. L’intellettualismo insieme alla volgarizzazione dei prodotti è il male maggiore. Cioè, o si produce un saper autoreferenziale, colto, ma assolutamente privo di una prospettiva storica reale, o si producono baggianate volte ad appagare gli istinti più animaleschi e bestiali del pubblico, stimolando risate scimmiesche, paure ancestrali o libidini di adulti trattati alla stregua di adolescenti. Si dimentica invece la cosa più importante, la funzione più autentica dell’arte e della cultura, che è quella di produrre bellezza e di dare significato all’esistenza.

Quando riavremo intellettuali capaci nuovamente di assolvere a tale funzione? Io mi sono fatto un’idea. Inutile attendere che la manna ci piova dal cielo, rimbocchiamoci le maniche e grazie alla guida delle grandi opere del passato lasciateci da grandi uomini, cerchiamo di assolvere noi stessi a tale funzione, di essere produttori di bellezza. La bellezza diceva il grande Dostoevskij salverà il mondo, non si sbagliava. Infatti è la bellezza che stimola le qualità maggiori dell’uomo, che dà una forza inarrestabile, irrefrenabile alle nostre azioni e alle nostre capacità cognitive. È la bellezza che dà senso all’esistenza. Insomma è la bellezza che ci fa sentire vivi. E cosa è la bellezza se non amore? La bellezza non è altro che la forma visibile di questa realtà immateriale, ma la più forte e irresistibile dell’universo.  Quindi rideclianiamo il messaggio Dostoevskiano: l’amore salverà il mondo. E perché ciò avvenga abbiamo bisogno di intellettuali nuovi, finalmente inattuali.

Il poeta non è altro che un canale, un medium per l'infinito, che si annulla per fare posto a forze che gli sono immensamente superiori e, per certi versi, persino estranee. D'altra parte chi sono io di fronte al tutto, ma al contempo, cosa sarebbe il tutto senza di me?

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