“La grande partita” e il mistero della Vita

È andato in scena, al tipteatro, l’esito del gruppo KALT azzurro, “La Grande Partita”. Ecco la recensione e il punto di vista di Salvatore LS.

Il Conflitto delle Interpretazioni ed il Mistero di Carla

Il testo ed i suoi problemi

Entriamo in sala. La scena è apparecchiata. Gli attori pronti. Sei personaggi intorno ad una scacchiera. Due giocatori, 4 spettatori. Silenzio. Quasi tensione. Lunghi minuti di silenzio. Un uomo con la pipa, uno degli spettatori della partitaci introduce agli eventi che si stanno per svolgere. Siamo su una nave. È in corso una partita di scacchi fra un campione ed una misteriosa sfidante. L’uomo con la pipa, il narratore dice: il tempo è sospeso, il tempo che conoscevamo. È la prima chiave: il personaggio /narratore ci avverte che questa partita è più di quel che sembrerebbe.

Vediamo pian piano presentarsi i personaggi. Ognuno presenta se stesso ed introduce al successivo nella narrazione. Intreccio. E’ la seconda chiave. Parla un contadino che nasconde le mani callose: “Non conoscevo questo gioco. La scacchiera pare animata”. Poi un giovane mite che parla di una spiritualità che sente guardando la scacchiera “sembra di assistere ad un rito laico”. Poi una cantante che non ama i fiori parla di sé. Ricorda. Introduce il campione. Lui bianco come i suoi pezzi è concentrato sulla partita e strenuamente attento. A sua volta introduce la sfidante, una giovane in nero come i suoi pezzi, Lui concentrato sulla partita e sull’avversaria, lei pare anche invece pensare agli spettatori. Parla dello spirituale e mite giovane, dice che non si è perduto nemmeno un movimento delle sue mani.

Gli spettatori ed i giocatori parlano a turno, due giri di recitazione in cui si trasformano ai nostri occhi rivelando cosa hanno in cuore o in mente e lasciandoci ciascuno un messaggio. È come un movimento a spirale del discorso narrativo attraversato dalla linea spietata del dialogo fra i giocatori. Come se la linea del loro discorso ritmasse lo svolgimento della spirale narrativa.

Parla il contadino. Scopriamo che è un poeta. Canta in dialetto del suo amore. Del desiderio di trasformarsi in farfalla se può stare con l’amata tre giorni d’estate. Chiede una pozione per perdere in lei la sua mente. Chiede una lettera da poter baciare sol perché l’hanno toccata le mani di lei. Si dischiude unico come un fiore notturno. Viene in mente il pascoli del Gelsomino notturno. Pregno di felicità profonda. Poco prima aveva accennato a lui il narratore. Costui è un intellettuale, un professore, se i professori fossero come lui davvero; vede l’insieme e le parti, ci ha introdotto alla scena, cuce le individualità in questo modo in unico intreccio. Osserva e pensa. Forse antivede.

Parla poi il ragazzo spirituale. Non si è perso un gesto della nera sfidante. E lei lo sa. Lei che suona nell’aria con la destra una misteriosa melodia mentre gioca. Lei che si gira d’un tratto ed alza la destra in segno benedicente. Lo spirituale capisce. Riemerge il senso di quel gesto, il gesto benedicente del santo. E si chiede cosa direi io con questo gesto se lo fossi? Ed il giovane si rivela: è il santo che recita la sua benedizione: sii ciò che sei sembra dire, puoi essere ciò che sei… sii il tuo essere nel mondo. Poi la cantante, si rivolge al campione: non essere triste, sembra pure un pazzo ma non essere triste, non farti spegnere.

Finora pare chiaro: nel tempo della partita, ciascuno entro sé, afferra il suo essere terreno e si trasforma in simbolo, simbolo di una vita intensa, vien in mente la vita/materia eterna e infinita di Bruno, una spiritualità di una vita sacralmente immanente. Ognuno è se, ognuno ha un messaggio e forse un compito.

Fin qui sembra chiaro. Almeno per i 4 spettatori. Ed i giocatori? il campione in bianco e la donna in nero, anche loro si rivelano costruendo l’epilogo, la spirale torna su se stessa in un cerchio più stretto per poi deflagrare. Forse.

Il campione ci confessa la sua disperazione. Si stacca dalla scacchiera. Si inginocchia verso il pubblico. È stanco. Sofferente, Del successo, Dell’essere un campione. Parla della sua solitudine. Vede il decadere del corpo. Racconta di una solitudine chiusa in sé. Strenua. Nevrotica. E’ tragico e nitido. Qui la narrazione sale nel tono drammatico, più drammatico. Il suo dolore non sembra destinato a risolversi. Ritorna al suo posto. Continuerà a giocare.

Un ultimo sguardo del professore: La sfidante è in difficoltà, si assenta dal gioco. Ha la mente altrove.

La sfidante è un mistero. Forse l’ultima chiave la offre il professore/narratore. La sfidante ve verso una gelida pazzia. Ma cosa rappresenta sul piano simbolico? O quale tipo di percorso esistenziale in una lettura di sacralità immanente della vita? Dice di essere il vaso di Pandora ricettacolo dei mali del mondo, di non riuscire a ricollocare i pezzi della sua vita e di avere poco tempo ed infinite scelte da fare. Dice che le sue emozioni sono imprigionate nel corpo ed i suoi pensieri nella mente. Chi è? L’infinito di cui parla ancora ma in due sensi opposti? La via della follia? La luna esoterica? Il mondo dell’arcano 21 col suo corredo di bestie evangeliche? È un altro mondo? Un esistere come negazione?

Una cosa è certa: fa una mossa che l’altro non riconosce. Lascia la logica del gioco. E il suo sguardo finale completamente assente, ne è il segno.

Lei è l’acme, il punto finale del periplo, la partita non finisce. Buio.

Buio sulla scena. La partita si conclude all’opposto di come era iniziata. Ma non possiamo più essere gli stessi. La scacchiera era sullo sfondo del palco. La terza chiave Noi come i personaggi eravamo gli spettatori. Noi tutti. Per questo troviamo apparecchiata la partita. Per questo il campione si rivolge infine a noi.

Non abbiamo risposta. Ma siamo in scena.
Buio.

La scena ed i suoi interpreti.

L’espressività dello spettacolo è altissima. I personaggi fra testo e performance sono nitidi e vibranti. Si intuisce prima di capire oppure come direbbe Vico si “avverte con animo perturbato e commosso”, prima di intendere. La mitezza del santo spaventa se si pensa alla grandezza che nasconde e rivela, il canto del poeta rende nell’esile figura dell’attore la potenza del suo sentire, la trepidazione immane dell’amante assoluto, la cantante è leggera perché la leggerezza viene dalla pesantezza come insegna Calvino, il narratore pacato come la sua comprensione, sereno il suo racconto perché tetro è il pensiero se non riferito all’arte.

Il Campione è un Galata morente, una statua ben tornita che si anima in una manciata di minuti e ritorna nella sua fissità. La Sfidante suona una melodia misteriosa che legge solo il santo, ci spaventa con la fissità del suo sguardo, trasuda l’angoscia delle nostre stesse esistenze. Una ricerca continua e disperata di senso. Impersona il Mistero della Vita.

Ciascuno è perfetto nei panni che veste. Piergiorgio, l’intellettuale, il narratore, pacato come un Poirot, Salvatore, il Campione, drammatico come una statua ellenistica, Antonio, mite come la santità vera, Antonio G, il contadino-poeta, il fiore notturno, Monica, la cantante limpida come il canto che toglie la tristezza, e Carla, la donna sconosciuta, la Sfidante, l’amata che perdiamo prima ancora d’averla conosciuta.

Mi scuso coi miei quattro lettori della lungaggine di questo scritto ma si sa la sintesi concettuale è quasi sempre lunga da esplicare linguisticamente. Se si ha l’obiettivo di farsi comprendere almeno.

Con gratitudine,

La Grande Partita
con: Monica Ammendola, Antonio Fiorentino, Antonio Gigliotti, Carla Stranieri, Turuzzo, Piergiorgio Vasta // guida Dario Natale // graph & comunicazione Domenico B. D’Agostino

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