“Epistula: in Carcere et Vinculis” il De Profundis di Oscar Wilde

Una lettera, una lettera scritta dal carcere di Reading dove era detenuto per il reato di sodomia. Una lettera di cinquantamila parole, venti fogli di carta rigata azzurra – forse la più lunga che sia mai stata scritta – indirizzata a Lord Alfred Douglas, Bosie, amante, tormento e rovina di Oscar Wilde.

La stesura della lettera avvenne negli ultimi due mesi di detenzione ai lavori forzati; il titolo con cui è arrivata fino a noi è “De Profundis” (un richiamo al Salmo 129, usato in suffragio delle anime dei defunti), titolo scelto dal suo grande amico Robert Ross per la prima, frammentaria, pubblicazione del 1905 e poi ripreso nel 1962 per l’edizione integrale, avvenuta solo dopo la morte di tutti i protagonisti.

Oscar Wilde, invece, scelse come titolo “Epistula: in Carcere et Vinculis”. Un titolo evocativo che ci costringe inesorabilmente a soffermarci su quale sia lo stato, fisico ed emotivo, di un uomo in carcere e in catene.

Queste 178 pagine di confessioni struggenti, di riflessioni profonde e così intime mi portano a chiedermi se io stia leggendo un romanzo o stia spiando dal buco della serratura dell’anima di un uomo. Mi assolvo, perché il dolore che esprime nelle sue parole, è un dolore universale, che appartiene a tutti noi, a tutti coloro che, nella vita, hanno imparato il valore immenso della consapevolezza.

“Caro Bosie”, così inizia la sua lettera per parlare di questa amicizia nata sotto una cattiva stella e finita nella vergogna, nella sua rovina.

“Se vi troverai anche una sola riga che ti faccia salire le lacrime agli occhi, piangi, come piangiamo noi in prigione, dove il giorno, non meno della notte, è segnato dalle lacrime”.

Una storia d’amore durata quattro anni, durante i quali più volte Wilde cercò di allontanarsi ma puntualmente tornava, spinto dai telegrammi pieni di suppliche e rimorsi e perdonava Bosie, Lord Douglas, alchimista dell’egoismo.

Nella disamina che fa della sua storia con il narciso Lord, mai si avverte un sentimento che si avvicina all’odio, anzi.  Ho come la sensazione che il fine ultimo di questa lettera sia di aiutare Bosie a comprendere ciò che ha fatto, scriverà, infatti che “Il vizio supremo è la superficialità. Ogni cosa che venga profondamente compresa è giusta”.

Wilde, non può esimersi dal biasimare sé stesso per aver amato incondizionatamente, nonostante la prevedibilità dell’epilogo, di aver amato nonostante “il primo scopo di questa amicizia non era la creazione o la contemplazione di cose belle”, di aver amato nonostante l’odio cieco che spinse Lord Douglas a rovinargli vita, facendolo diventare facile preda del padre di Bosie. Fu quest’ultimo a trascinarlo in tribunale per colpire, annientare in una partita senza esclusione di colpi tra padre e figlio, in una faida che durava da sempre, il suo stesso figlio. A farne le spese, sarà Wilde che si ritroverà mandato in pasto al pubblico ludibrio in un processo infamante che gli costerà tutto. L’odio è una forma di atrofia che uccide ogni cosa, ad eccezione di sé stesso.

Queste pagine sono intrise di lacrime e sofferenza, sembra di evocarle ad ogni parola che leggiamo. Ogni pagina, è ricca di una cultura spropositata, di citazioni, di pura e sublime poesia. La sofferenza al contrario del piacere non porta la maschera.

“Ero alla berlina. Ma soltanto chi è senza immaginazione ama le persone che sono sul piedistallo. Un piedistallo può essere una cosa estremamente labile. La berlina è una spaventosa realtà. Dovrebbero avere imparato ad interpretare meglio il dolore. Ho detto che dietro il dolore c’è sempre il dolore. Sarebbe più saggio dire che dietro il dolore c’è sempre un’anima. E farsi beffe di un’anima che soffre è una cosa orrenda. È squallida la vita di coloro che lo fanno”.

Com’è lontana l’immagine dell’uomo che interpreta le sue opere con elegante cinismo nella tessitura de Il ritratto di Dorian Gray, lui, eccentrico e indifferente sovvertitore di tutte le regole della morale, lui, protagonista fino all’opera estrema, fino al tragico capolavoro. Le sue opere, interpretate sempre in tutti i modi, tranne in quello giusto. Eccolo, nel suo scritto più maturo, nelle sue confessioni più intime e profonde a raccontarci il suo dolore. Dopo una vita spesa in piaceri, impara a conoscere e a viverlo, il dolore, e questo gli offre una visione completa dell’esistenza. “Là dove è il dolore è terra benedetta”.

La sofferenza è ciò che lo tiene in vita, l’unico modo che ha di avvertire la realtà. Chiaro, non si pente di quello che è stato, non c’è nessuna conversione. C’è solo la volontà di diventare un uomo migliore. Una vita nuova, o forse più semplicemente la continuazione, lo sviluppo della sua vita precedente, dove scopre che il tesoro più grande è l’umiltà. Nella vita passata, come tutti coloro che hanno fatto della terra il loro cielo, non vi hanno trovato solo la bellezza ma anche l’orrore dell’inferno, e quell’inferno che tanto lo spaventava, quel fiele amaro che aveva cercato di evitare per tutta la sua vita fu costretto a berlo, tutto.

Attraverso l’incontro con il figlio di Dio, il più grande dei poeti, il supremo individualista, Wilde salva la sua anima: conosce l’accettazione; egli comprende che l’unica cosa che poteva fare per salvarsi era accettare tutto “avevo toccato la mia anima, oserei dire, nella sua ultima essenza. Ne ero stato il nemico, in molti modi, ma infine la trovai ad aspettarmi come un amico” e ciò avviene quando ci si libera dalla zavorra della superficialità, da tutte le aliene passioni. La vita del Cristo è la più meravigliosa poesia; anche nella tragedia greca nulla può superare in “pietà e terrore” ciò che fu la sua esistenza. Questo era il fascino di Cristo: egli è l’autentica opera d’arte, il supremo artista da cui deriva tutta la bellezza.

“Tutto quanto accade a un altro accade a noi stessi e se qualcuno ti domandasse che mai una scritta simile possa significare, risponderai che significa il cuore di Cristo e il cervello di Shakespeare”

Per l’ennesima volta, leggendo il De Profundis abbraccio questo testamento spirituale che Oscar Wilde, il grande scrittore irlandese, ci lascia in eredità. Resto stupefatta dal dolore, travolta dal travaglio spirituale, dall’amarezza che, in ogni sofferta, dolorosa, pagina viviamo insieme a lui.

La catarsi di questa scrittura, tuttavia, si riverbera nella nostra lettura e sentiamo, nel mostrarci i frammenti del suo cuore infranto, accarezzarci l’anima dalle sue sublimi parole, così vere, così nostre.

“Diventare un uomo più profondo è il privilegio di chi ha sofferto, e tale credo sia il mio caso”.

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