È il 1883. Chiuso nella sua casa torinese, l’ormai settantenne don Domenico Lopresti, gentiluomo calabrese di incrollabile credo repubblicano, inizia a scrivere le proprie memorie, tra rimpianti, lacerazioni, verità dimenticate, memorie perdute e occasioni mancate.
Questa, in estrema sintesi, la trama del romanzo di Anna Banti, Noi Credevamo, uscito nel 1967: un libro quasi dimenticato, per molto tempo, riportato alla memoria grazie all’omonimo film di Mario Martone ( con un sempre bravissimo Luigi Lo Cascio).
Un libro che fa male, un volume che penetra a fondo nell’animo, perchè tocca un nervo scoperto del nostro Paese: l’Unità d’Italia. Un evento che ancora oggi non è visto nella sua giusta luce, diviso com’è tra la retorica delle celebrazioni e il revisionismo dei “post-borbonici”.
Beh, questo libro riesce a fare luce su quel periodo così contorto e fondamentale: illumina gli angoli bui del movimento risorgimentale, le sue contraddizioni, la grande forza del movimento repubblicano, poi “tradito” dai moderati e da alcuni dei repubblicani stessi, che si misero nelle braccia del “lontano Piemonte” che parve- ma non fu solo un’impressione- sostituire un regime con un altro. Mostra senza pietà il distacco fra le teorie per la costruzione di un paese e la mentalità arretrata e immiserita del popolo: due realtà che non fecero insieme il Risorgimento, ma lo subirono.
Co una prosa scarna, sofferta, a metà tra romanticismo e verismo, Anna Banti ( il cui vero nome era Lucia Lopresti) ci permette di penetrare a fondo nell’animo di un convinto repubblicano, ci mostra la sua vita di sconfitto nella vittoria, ci trasmette l’amore per la sua Calabria,”bella e perduta”, ci spalanca le porte delle sofferenza di coloro che lottarono, e alla fine si videro traditi, ci mostra i grandi uomini del Risorgimento in una luce più completa e sfaccettata- memorabili le figure di Garibaldi, del Duca Castromediano e del patriota calabrese Musolino, pur così diversi- ma lancia un messaggio di speranza: per “don” Domenico, comunque, tutto è valso la pena, e la sua negatività e il pessimismo di un vecchio prossimo alla morte non scalfiscono questa consapevolezza.
Perchè in fondo i grandi eventi sono una metafora della vita: semi fioriti in mezzo alla morte e alla disillusione.
Memorabile la chiusura del romanzo, che suggella tutto il libro in una frase straordinaria, per uno dei romanzi più belli della letteratura italiana:
“Non è stato troppo tardi se ne ho ottenuto di avere tutta la mia vita davanti agli occhi, un campo di battaglia in azione, e gli onori della giornata sono ancora incerti. Non ho taciuto né risparmiato nulla, infanzia, gioventù, famiglia, amicizie, le mie responsabilità e quelle degli altri. Le ho passate al setaccio e non ho rintracciato l’errore in cui siamo caduti, l’inganno che abbiamo tessuto senza volerlo. Pisacane seppe far meglio e se sbagliò trovò misericordia nella morte. Io l’aspettavo a Montefusco e lei passò via, dandomi appuntamento su questo letto di vecchio.
Ma io non conto, eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola.
Noi credevamo…”
Buona lettura!
Di Pesaro. Ho trentaquattro anni, vivo e scrivo da precario in un mondo totalmente precario, alla ricerca di una casa dell’anima – che credo di aver trovato – e scrivo soprattutto di fantasy e avventura. Ho sempre l’animo da Don Chisciotte e lo conserverò sempre!
1 commento
Aggiungi il tuograzie per questo articolo…….e continua a fare il Donchisciotte! Ne abbiamo bisogno….