In un passo della Politica, Aristotele analizza gli effetti della catarsi artistica e l’effetto positivo che ne consegue sullo spettatore. Secondo Aristotele infatti lo spettatore della tragedia teatrale, l’uditore della musica messa in scena, il semplice lettore, immedesimandosi nell’opera si purifica da quegli stati emotivi che lo opprimono nella vita di tutti i giorni (catarsi), su tutti la paura di morire, vero motore di ogni nostra azione o passione.
Consapevoli o meno, ogni nostra azione è una reazione a questa paura, tipica di ogni uomo, in quanto solo noi, nello spettro della natura siamo consapevoli della vita, e che essa finirà. Gli animali ne sono anch’essi determinati, ma a livello istintuale, essendo mossi innanzitutto dal principio del piacere, vero motore che guida le loro azioni (la fuga di fronte al pericolo, l’istinto di nutrirsi, il piacere di gustare un cibo invitante che plachi la loro fame, l’istinto di riprodursi per calmare il desiderio sessuale). L’uomo invece è molto più complesso, e di certo non lo si può ridurre ad un mero ingranaggio naturale condizionato dagli istinti. Egli porta in sé il concetto del giusto, lo spirito religioso, i tabù, e i concetti di bello e del sublime. Il piacere è solo un aspetto della nostra vita, ma pur tuttavia niente vieta di pensare che tutto si sviluppi a partire dalla paura più ancestrale, che è quella di non essere più. Per questo ogni nostra azione si può ridurre ad un rito di esorcizzazione, per allungare la vita, prolungare lo stato di benessere e dimenticare, mediante anche la semplice operosità, la morte. In ciò l’opera d’arte ci viene incontro. Attraverso diversi meccanismi. L’uno è quello della bellezza, e l’altro è quello del sublime.
La bellezza e il sublime
Attraverso la bellezza noi scopriamo un’armonia nelle cose, che ci appare del tutto contingente. Non dettata dalle leggi dell’intelletto, ma se mai stante nelle cose in sé. La bellezza ci allieta, ci alleggerisce, lenendo la pesantezza della vita, in quanto stimola il nostro sentire, che si percepisce come parte del tutto e quindi rasserenato. Il sublime invece ha in sé qualcosa di molto più tragico e serioso. Se la bellezza ci faceva sentire allineati con il tutto, parte della natura e degli altri uomini, esso da una parte ci fa patire il peso dell’esistenza e i suoi travagli, su tutti la morte, ma al contempo ci eleva rispetto ad essi, perché non possono ricondurci allo stato del non essere.
Sono anticipazioni della morte e del dolore, ma noi in quanto soggetti morali, che possiamo porre da noi i nostri precetti, siamo in grado di innalzarci dal regno della necessità naturale per accedere così ad una dimensione spirituale in cui i patimenti della vita non sono niente. Il meccanismo di una tragedia è proprio questo. Essa ci fa toccare vette emotive terribili, in cui attraverso l’immedesimazione nei personaggi, ci sentiamo atterriti, spaventati, come se i loro terribili eventi stessero capitando a noi. Ma nonostante in noi si sviluppi il sentimento di morte, pian piano ci rendiamo conto che esso non può distruggerci, e attraverso questa percezione ci sentiamo liberati da quei travagli che ci assalgono nella vita di tutti i giorni. E questa è la catarsi di cui parla Aristotele. Ed è questa catarsi che Agostino attacca.
Il punto di vista di Agostino
Per il vescovo cristiano l’opera teatrale ha una duplice funzione negativa. Da una parte rinfocola le passioni, come quando ci si gratta una ferita infetta, dall’altra, attraverso il patimento per l’azione scenica favorita dalla mimesi, contraddice la naturale tendenza umana alla felicità. Ma la sofferenza è possibile solo in funzione della misericordia. La quale non è possibile a teatro, perché deve tradursi nel patimento per altri, che nel teatro non è possibile, semplicemente perché a teatro gli altri non esistono, in quanto finti. È un peccato questa ricerca del dolore priva di oggetto. Perché «questo soffrire in cui manca l’altro e che si svolge tutto dentro di sé ripropone la superbia dell’amor sui, assolutizzazione dell’egoismo, contro l’humiltas dell’amor Dei. Un soffrire pericolosamente illusorio, peccaminoso, il segno di una tragica misera, la malattia dell’anima ulcerosa. Non ogni dolore infatti è espressione di autentica compassione, così come non ogni dolore ha un oggetto degno»[1].
La polemica agostiniana in realtà sembra riallacciarsi già a quella platonica quando nella Repubblica sostiene che il dolore a teatro è un compiacersi di realtà illusorie contro quelle autentiche. Tanto che si soffre di più a teatro, che nei lutti reali. Come Platone quindi Agostino guarda al teatro come «all’elemento di attivazione di un processo di straniamento dell’individuo, frutto dello spectare azioni fittizie e dell’identificarsi in personaggi altrettanto fittizi»[2]. Al dettato agostiniano si rifece una lunga polemica antiteatrale che fu sanata dal Manzoni secondo cui l’opera letteraria, quindi anche il teatro, non devono semplicemente muovere passioni, rischiando quindi di estraniare dalla realtà, ma devono fare anche riflettere circa la giustezza delle azioni dei personaggi e quindi portare ad una riflessione morale.
Le domande di oggi
Il dibattito anche così sembra tutt’altro che concluso. Oggi che il teatro è stato soppiantato come mezzo rappresentativo, per quanto riguarda la sua diffusione, dalla televisione e da internet. Oggi che le produzioni televisive sono create avvalendosi delle tecniche del marketing. Oggi che internet tramite YouTube, e altre piattaforme virtuali, veicola materiale di facile presa, che è difficile ricondurre a forme artistiche, ma che stimola reazioni emotive, attraverso immagini forti. Oggi: il dettato agostiniano delle Confessioni e quello platonico della Repubblica tornano di strettissima attualità. Non sono forse questi, mezzi comunicativi e rappresentativi, che distolgono dalla realtà, che alienano, non facendoci riflettere, ma se mai immergere in mondi virtuali che ci alienano da quel che siamo, assorbendoci completamente e annullando quella funzione dell’anima, che ci rende uomini, anche detta giudizio critico, che il Manzoni vedeva particolarmente sollecitata nell’opera d’arte?
Io mi faccio tutte queste domande e purtroppo la risposta che me ne ritorna non è molto positiva. Se si ponevano il problema già nell’antichità, oggi cosa penserebbe un Platone o un Agostino di fronte all’affermarsi delle realtà virtuali, che stanno erodendo tutto, come un mare tempestoso? L’umanità è in grave pericolo, come la spiaggia stretta nella morsa della tempesta. Non ci resta molto margine, ma forse ancora qualcosa si può fare, almeno in quanto singoli, stimolando lo spirito critico e riappropriandoci della realtà. Del come si può discutere, ma sul fatto che vada fatto, dubbi non ce ne possono essere. Il tempo stringe. La spiaggia è sempre più corta.
[1] B. Clausi, Il piacere della sofferenza. Agostino, Aristotele e la catarsi tragica, in Le Confessioni di Sant’Agostino. Bilanci e prospettive, Roma, 2002.
[2] ibidem
Il poeta non è altro che un canale, un medium per l'infinito, che si annulla per fare posto a forze che gli sono immensamente superiori e, per certi versi, persino estranee. D'altra parte chi sono io di fronte al tutto, ma al contempo, cosa sarebbe il tutto senza di me?