Capire la Resistenza: L’Agnese va a morire, di R. Viganò

Non è affato facile parlare di Resistenza. Del suo peso storico, sociale. Non è facile riuscire a carpire un movimento di liberazione in tutta la sua ampiezza, particolarismi regionali, politici. Argomento ampiamente analizzato e sviscerato, in un paese come il nostro che resetta velocemente, ma che non smette ancora di stupire. Perchè circa 70 anni fa, l’Italia stava affrontando le conseguenze di un regime dittatoriale di stampo fascista. La Resistenza fu il primo vero movimento di liberazione nazionale, la prima vera sollevazione popolare. Sono noti i miti, le figure leggendarie, la rivoluzione culturale che ne seguì. Numerosa e varia la produzione letteraria del periodo.

Uno dei romanzi maggiormente adatti per comprendere pienamente ciò che chiamiamo Resistenza è, indubbiamente, L’Agnese va a morire di Renata Viganò. Un lampo di luce per rigore quasi diaristico e cronachistico avvolto da un’analisi introspettiva mai assente.

Pubblicato per la prima volta nel 1949 da Einaudi, in un periodo troppo tumultuoso per essere pienamente capito e apprezzato, il romanzo è stato ripubblicato nel 2015 nell’ambito della collana Biblioteca della Resistenza del Corriere della Sera.

Ambientata nelle Valli di Comacchio, in Romagna, è la storia della silenziosa ed operosa contadina Agnese, donna realmente esistita – come raccontò Renata Viganò in un articolo pubblicato sull’Unità il 17 novembre 1949, presente  in appendice- diventata staffetta partigiana nonostante la sua tarda età, dopo l’arresto del marito Palita (Paolo) -probabilmente tradito dai vicini di casa- ad opera dei fascisti.

In seguito all’ accidentale uccisione di un soldato tedesco -ma in fondo voluta- inizia per Agnese la sua vita sotto copertura. Si unisce ad un gruppo di partigiani tramite amici del marito, funge da madre e da sorvegliante discreta. Cucina, ricama, accoglie, smercia armi ed esplosivo. In sella alla sua bicicletta percorre chilometri, da un borgo all’altro, sotto il peso della pioggia, della neve, della nebbia, del fango, della fame, dei panni da lavare o da portare indietro, del cuore affannato, dei mitra puntati, i bombardamenti, i rastrellamenti, degli sguardi in tralice dei tedeschi, rischiando la vita più volte.

Palita non tornerà più, ma ci sarà sempre nei sogni premonitori e consolatori. Il Comandante della brigata sarà il suo angelo custode, giudice inflessibile di ciò che è giusto e sbagliato. A poco a poco, la contadina innocua diventerà importante per tutti, sebbene lei non sembri accorgersene, piccola grande figura, quasi reggente le sorti dell’ intera valle.

Si avverte una crescita del personaggio: ciò che prima era estraneo al mondo femminile rompe improvvisamente e violentemente i limiti imposti. È una presa di coscienza rivelatrice, epifanica:

<<Adesso, invece, potrebbe parlare con Palita. Sapeva molto di più. Capiva quelle che allora chiamava “cose da uomini”, il partito, l’amore per il partito, e che ci si potesse anche fare ammazzare per sostenere un’idea bella, nascosta, una forza istintiva, per risolvere tutti gli oscuri perchè, che cominciano nei bambini e finiscono nei vecchi quando muoiono. […] Lei adesso lo sapeva, lo capiva. I ricchi vogliono essere sempre più ricchi e fare i povere sempre più poveri, e ignoranti, e umiliati. I ricch guadagnano nella guerra, e i poveri ci lasciano la pelle. Lei, quando andava per il bucato, i signori del paese la salutavano appena, la lasciavano sulla porta. E non ci si azzardava a dir niente, per paura di sbagliare, di far ridere, di perdere il pane di tutti i giorni. C’era però chi diceva qualche cosa: il partito, i compagni, tanti uomini, tante donne, che non avevano paura di niente. Dicevano che così non poteva andare, che bisognava cambiare il mondo, che è ora di farla finita con la guerra, che tutti devono avere il pane, e non solo il pane, ma anche il resto, e il modo di divertirsi, di essere contenti, di levarsi qualche voglia. I fascisti non volevano, e loro ci si buttavano contro malgrado la prigione e la morte. I fascisti avevano fatto venire in Italia i tedeschi, , avevano scelto per amici i più cattivi del mondo, e loro si buttavano anche contro i tedeschi. Ed era tutta gente come Magòn, come Walter, come Tarzan, come il Comandante, gente istruita, che capisce e vuol bene a tutti, non chiede niente per sé e lavora per gli altri quando ne potrebbe fare a meno, e va verso la morte mentre potrebbe avere molto denaro e vivere in pace fino alla vecchiaia. E appena arriva, dice: – Hai mangiato? Hai bisogno di qualche cosa?- e prima di andare via dice:- Buona notte e buon Natale mamma Agnese. Questo era il partito e valeva la pena farsi ammazzare.>>

Un ideale che si fa carne, un manifesto politico puntellato di valori: la fratellanza, la solidarietà, il mutuo soccorso, l’abbattimento dei principi borghesi, della divisione sociale, del capitalismo, la voglia di costruire un mondo pacifico. Non sempre nei romanzi italiani viene espresso con maggiore chiarezza e sincerità: lo stile della Viganò è lontano da quello di Mario Tobino in Tre amici, in cui l’esperienza della resistenza è filtrata dall’appartenenza alla classe borghese, lontano dal realismo dal tocco magico- fanciullesco di Italo Calvino de I sentiero dei nidi di ragno e dalla rapidità di azione di Uomini e no di Vittorini. È più vicino al simbolismo collinare di Pavese (La casa in collina) e la colpevolizzazione dell’indifferenza umana, con uno stile ancora più limpido e netto.

L’universalità di queste opere resta palpabile: il trailer della seconda Guerra Mondiale (ma di qualunque altra guerra) è sempre uguale: morte, distruzione, violenze, stupri, razzismo, intolleranza, torture, atrocità, macerie, rovine, perfettamente rese dal neorealismo cinematografico. (Il film tratto dal romanzo è, invece, del 1976 per la regia di Giuliano Montaldo).

Non ci sono più vie di mezzo: chi resta indifferente, sarà condannato dalla Storia, nello scontro supremo tra il bene e il male. Tra la vita e la morte. Tra umanità e disumanità. Agnese morirà sacrificandosi per una causa maggiore, faccia a faccia con il nemico tedesco. Ha compiuto il suo dovere, di donna e partigiana, di resistente. È il simbolo degli umiliati, degli afflitti, degli oppressi, “un mucchio di stracci neri sulla neve” che entrano di diritto nella Storia, in punta di piedi e colgono il senso dell’essere uomini. Risulta pesante l’eredità della Resistenza: la condanna di ogni estremismo, la difesa dei diritti umani, la dignitas del lavoro, la politica come partecipazione attiva trasversale, la giustizia sociale (lungi dall’essere bieco populismo). Oggi, il sorgere delle nuove destre riesuma vecchi fantasmi, la disgregazione politica e ideologica frantumano le certezze, le divisioni sociali non sono state seppellite. In che cosa abbiamo fallito? Perché? Cosa ne è stato dell’ardore, del coraggio, del sacrificio, delle lotte? Come siamo giunti a questo? Sebastiano Vassalli chiude l’introduzione del libro chiedendosi “Che cos’è l’Agnese?”, lasciando a noi lettori il compito di capire e rispondere.

È un richiamo etico-morale urgente che pesa sulle nostre coscienze: cosa possiamo fare per impedire il ritorno di tragici passati e della barbarie? Come impedire l’oblio di una pagina della nostra Storia?

Che i nostri passi e le nostre azioni possano essere di lotta civile, sempre.

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