Questo articolo/intervista nasce da una mia vecchia idea che, forse, prima o poi vedrà la luce in maniera completa: stilare una sorta di catalogo, un compendio, di narrazioni giovanili. Man mano che portavamo avanti (con Manifest) le nostre idee e le nostre piccole azioni in giro per il nostro territorio calabrese, infatti, ci accorgemmo fin da subito che non potevamo e non dovevamo essere i soli ventenni (chi più, chi meno) a voler portare avanti un discorso approfondito in merito all’importanza delle tradizioni, all’importanza del restare e dell’attivare meccanismi di autodifesa nei confronti dei tanti, troppi mali che la nostra terra (parlo nella fattispecie del Sud ma, è ovvio, di un Sud “culturale” più che geografico) pare continuare a offrirci. Questo discorso è cresciuto, mutato, nel corso del tempo, com’è giusto che sia, esperienza dopo esperienza e io… io stesso ho riveduto completamente le mie idee su una metodologia del restare che, forse, avrebbe bisogno di riorganizzare il proprio vocabolario. Mi riferisco, soprattutto, all’amico prof. Teti il quale, di recente, ci ha fatto intendere quanto il restare, spesso, coincida proprio con l’andar via, oppure quanto tradizione e passato vadano adeguatamente de-mitizzati per costruire il nostro presente operando una cernita tra ciò che del passato è possibile tralasciare e ciò che, invece, del passato si deve recuperare. D’altronde, già con gli amici della compagnia teatrale Scenari Visibili, in un lavoro sulla poetica di Felice Mastroianni, avevamo ripreso una citazione di Stravinskij che ancora non ci ha stancati. E probabilmente mai lo farà: «Una vera tradizione non è la testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che anima e informa di sé il presente».
È questa forza viva che mi andava di raccontare. Succede ancora, da Nord a Sud, in molti paesini, magari anche al nostro o a quello dietro l’angolo. Magari in quello di cui ignoravamo anche l’esistenza perché il nostro spostarsi quotidiano non ci ha permesso di fermarci in quello che è un piccolo universo sociale a sé stante. È questa forza viva che anima e informa il presente di molti più giovani di quanto potremmo immaginare. Anche quello di Roberta Grasso.
Roberta ha 22 anni e viva a Galatone (dal greco “γάλα” cioè “latte”; Γαλάτουνα, traslitterato Galàtuna in greco otrantino) una piccola cittadina nella provincia di Lecce. È della bilancia (perché ho reputato importante domandarglielo) e non beve da tre giorni (perché ha reputato importante dirmelo). Ha frequentato l’Istituto Tecnico Nautico delle sue parti perché tra le sue aspirazioni c’era quella «di fare carriera in mezzo al mare, che amavo e amo ancora tanto».
A un certo punto avviene in Roberta uno di quei piccoli ma grandi cambiamenti di cui (almeno per me è stato così!) spesso nemmeno ci accorgiamo in tempo. Voglio dire… quelle situazioni, quelle contingenze, quei viaggi, quelle persone conosciute, tutte quelle cose che ti de-strutturano gli schemi soliti che stavamo seguendo fino a quel momento. In particolare:
«Due sono state le circostanze che mi hanno cambiata. 1) Il viaggio a Londra, a 16 anni, che mi ha aperto gli occhi su quanto di speciale lasciamo a casa andando a curiosare fuori dal mondo, lontano dal caffè della mattina e dalla pasta fatta in casa della domenica. 2) La scoperta di quel meraviglioso, antico e complicato mondo della musica tradizionale. Insomma, da casa avevo capito che non me ne volevo andare».
Re-inventarsi. È questa, a mio parere, la parola chiave che ci viene in soccorso per comprendere la nostra vita in momenti simili. E parlo della vita di noi, noi giovani che abbiamo il dovere di confrontarci (senza, tra l’altro, che nessuno ci abbia mai spiegato bene il perché) con una generazione che da un lato non ci considererà mai adulti abbastanza e, dall’altro, vorrebbe per noi una vita assicurata già da giuovincelli. E Roberta si è re-inventata così:
«Mi sono chiesta, cosa posso fare per conservare quello che amo? Ho iniziato a conoscere la mia musica, quella della mia terra, studiando e raccogliendo materiale audio dagli anziani, da chi sa raccontarmi le loro vite, appunto cantandole. A 17 anni ho quindi iniziato la mia avventura di ricercatrice amatoriale di musiche, cunti e culacchi. Un hobby che porta via risorse e molte energie. Inizio quindi, non appena finita la scuola, a saltare da un lavoretto ad un altro, cercando un’occupazione che mi faccia coltivare tutte le mie passioni. Nel corso di questi sei anni ho preso in mano la macchina fotografica, studio e suono il tamburello in tutte le sue cadenze e suonate italiane, suono anche un po’ la chitarra e quando posso vado a cantare e suonare l’organetto dagli anziani».
Tutto ciò non vuole e non dev’essere minimamente considerato nell’ottica di quelli che negli ultimi tempi diventano quasi dei luoghi comuni per noi, noi che volenti o nolenti abbiamo deciso di restare. Sta nella consapevolezza dei propri limiti, nell’umiltà, nella curiosità perenne e, probabilmente, in mille altre cose, la differenza tra restare passivamente e restare mettendo in moto meccanismi che attivino la cultura. Già, perché per chi scrive, per chi ho intervistato e, ne son sicuro, per molti che leggono queste parole, è ancora e sempre la Cultura la discriminante di una vita degna d’esser vissuta davvero. E Roberta non è affatto sola in questo. La mia curiosità nei suoi confronti, come dicevo, s’è attivata unitamente alla curiosità nei confronti di un movimento che ho scoperto ben più grande di quanto pensassi. E i fratelli Andrea e Alessio Bressi, due cari amici, ne sono l’esempio più concreto dalle nostre parti. Sì, esistono ragazzi, giovani, meno giovani, che ci provano. Ci provano con tutte le loro forze a fare del passato il proprio futuro, a fare un passo in avanti ma tenendo lo sguardo rivolto dietro. Ché dietro non è in questi casi sinonimo di essere in ritardo ma di comunicare con un linguaggio d’avanguardia: quello della tradizione, appunto. Sono archeologi della tradizione, cercatori di ciò che è andato perduto. Dei nuovi trovatori. Mi piace definirli così. Stanno là, nei vari paesi di un Sud che ancora non si è compreso, in angoli di quel meridione che, per ricordare Franco Costabile, dovrebbe decidersi una buona volta. Perché per noi… per noi ragazzi deciderci non è affatto cosa semplice.
«Da una parte ho una famiglia che mi spinge a partire “alla Ggermania” o di cominciare ad andare per mare, dall’altra ho una voglia matta di restare. C’è anche stata l’occasione di partire in terra tedesca (tre fredde settimane), dovevo provare anche io l’ebrezza di sentirmi emigrante, no? Tutte le mie scelte o tendenze sono sempre state dettate da uno spirito controcorrente e anche un po’ sprovveduto: non farei mai una scelta banale, un lavoro noioso, una vita ovvia. Di conseguenza, se tutti i cervelli sono in fuga, il mio resta. Diciamoci la verità. C’è chi nasce in città e la ama, c’è chi nasce in paese e vuole fuggire via e poi ci sono io, che mi piace andare a raccogliere gli asparagi selvatici, fare le orecchiette e la passata di pomodoro ad Agosto».
E nel frattempo, tra un lavoro e un altro, tra un concerto e un altro, tra la bellezza di un’anziana che riversa un intero patrimonio culturale agli occhi e alle orecchie di una ventiduenne pugliese e la fatica del cercare, comunque, di stringere una rete tra chi non riesce proprio a non fare di tutto ciò la sua vita (o almeno una parte importante di essa), Roberta non si lascia minimamente intimidire dalle difficoltà e riscopre anche la bellezza di un artigianato sincero nella sua naturalezza, essenziale nella sua semplicità e decisamente grande… nella sua urgenza espressiva.
«Una sera d’inverno del 2016 per caso accanto al camino mi ha colpito un pezzo di legno di ulivo e le sue venature che facevano un disegno interessante. L’ho rubato e nascosto sotto il letto, tirato fuori pochi mesi fa per tagliarne un pezzo e farci un anello. Una cosa dietro l’altra e ho iniziato a vendere le mie creazioni ad amici e conoscenti, stupefatti da come riuscissi a tirare fuori forme e idee da una cosa che mai avrebbero immaginato. Esperimento dopo esperimento ho deciso di aprire una pagina su Facebook e di pubblicare i miei lavori con questo legno, la materia che più rappresenta il mio Salento, profumato come l’odore della terra rossa dopo un acquazzone estivo, duro come la vita nei campi, come la vita di noi, nuovi giovani del Sud».
E di questi ulivi, infatti, Roberta mi parla più volte, tradendo, nelle sue parole, note di profonda commozione, di passione. Se non altro il loro legno, la loro corteccia, nodosa e ruvida è uno dei primi punti cardine del restare concreto di Roberta. E io la capisco, la capisco molto bene.
Qui la pagina dei lavori d’artigianato di Roberta Grasso.
Vive a Lamezia Terme, legge e scrive dove gli capita. A tempo perso si è laureato in Beni Culturali e in Scienze Storiche, a tempo perso gestisce il blog Manifest e a tempo perso è responsabile della Biblioteca Galleggiante dello Spettacolo del TIP Teatro. Di fatto, non ha mai tempo. Ha esordito nel 2023 con il romanzo "Al di là delle dune" (A&B)