Multiforme, versatile, dai molti viaggi. Questi i principali significati del termine “polytropon” (πολύτροπον), col quale viene descritto Odisseo da Omero. Non c’è termine migliore che si adatti a quel lembo meridionale della Calabria la cui asprezza ha dato il nome alla medesima contrada: l’Aspromonte.
Avevo sentito parlare di Africo come di uno dei tanti paesi abbandonati dell’area grecanica, forse il più triste ed anche il più famoso, pur nella sua miseria. Nel 1948, sulla rivista “L’Europeo”, venne pubblicato un reportage a firma di Tommaso Besozzi. Esordiva così: “Parecchio tempo fa, trovarono un’ostetrica calabrese, da poco diplomata, alla quale non dispiaceva di procurarsi un titolo utile per la carriera,e la mandarono ad Africo, sull’Aspromonte. Era una donna giovane e, partendo da Reggio Calabria, aveva indossato l’abito più grazioso: il che fa supporre che il suo animo non fosse troppo maldisposto. Però, nessuno le aveva detto che non esistono strade che portino ad Africo, ma soltanto sentieri; e quel giorno, essendo nevicato, il mulo sul quale dovette cavalcare per salire sull’altipiano e ridiscendere nella conca dove sorge il paese impiegò quasi nove ore, invece di sei. Arrivò disfatta; si affacciò nelle stanze dal pavimento di terra battuta, nelle quali non arriva luce che dal vano della porta; vide che la gente vi dormiva assieme alle capre, all’asino, al maiale, e non ci volle altro, per deciderla a fuggire.“
La situazione di Africo non doveva essere di molto cambiata all’epoca della pubblicazione se di Africo si scriveva ancora che: “è un paese di pastori: il più povero, il più triste, il più infelice della Calabria. Eppure quando ci si sta per arrivare e si scorgono da lontano le sue case divise sulle due rigide sponde della gola in fondo alla quale scorre l’Aposcipo, la prima impressione è che sia un paese ridente […] Ad Africo, per quanto sia una conca riparata, a soli cinquecento metri di altitudine, a breve distanza in linea d’aria dalla costa jonica , il grano e la vite non crescono. Non c’è acqua né luce elettrica; non ci sono botteghe, né locande; la gente mangia un pane color cioccolata, fatto di farina di lenticchie selvatiche; le abitazioni, tolte pochissime, sono di un locale solo e là vivono assieme uomini e bestie“.
Un racconto del genere, sebbene portò all’attenzione nazionale la vicenda di Africo, non diede agli abitanti alcun beneficio. Pochi anni dopo, il 14 ottobre del 1951, una forte alluvione provocò nove morti e costrinse le autorità locali ad ordinare lo sgombero definitivo del paese. Per circa 2500 persone, tante ne vivevano in quella triste contrada, iniziò una diaspora: alcuni furono destinati a Bova, altri a Reggio Calabria, altri ancora a Gambarie. Negli anni successivi il medesimo destino toccò a Roghudi Vecchio e a Ghorìo, travolti anch’essi da un’alluvione. Si iniziò così a cementificare la zona costiera, di modo che i molti abitanti delle montagne potessero trasferirvi. Nacquero così doppioni degli originari paesi montani: Condofuri Marina, Bova Marina ed anche Africo Nuovo.
Nel viaggio verso Africo si passa da questi paesi nuovi, tutti uguali, agglomerati di case senza anima tagliati dalla strada statale. Lo sguardo è rivolto verso l’entroterra, verso i primi contrafforti dell’Aspromonte. Chissà quanti segreti e quanti luoghi sono custoditi lì dietro. Per giungere ad Africo occorre superare Bova Antica ed impegnare un lungo ed accidentato sentiero. A 1500 metri si incontra molta neve sul percorso, farà freddo, mi dico. Sbaglio. Alcuni ritengono che il termine Africo derivi da “apricus” ovvero “esposto al sole”. La parola non tradisce. Un caldo inusuale si avverte man mano che il paese si avvicina. Bisogna rimuovere gli abiti invernali.
Dai racconti letti ci si aspetterebbe di trovare un luogo cupo, invece, complice il cielo terso, la zona risplende di mille colori. Un bosco incantevole formato da secolari piante di querce e rigogliosa macchia mediterranea corona il sentiero scavato nella roccia. L’occhio si può soffermare sulle ampie vallate sottostanti: dal torrente Aposcipo alla fiumara La Verde. Tutto splende.
Alla vista il paese sembra provenire da una fiaba, pare svanire quell’alone di luogo invivibile, triste e consunto che lo accompagna nelle descrizioni. Il muschio ha colonizzato i vecchi muri, dando l’impressione che le abitazioni si uniscano col verde circostante. Il silenzio che copre questa contrada illuminata dal sole rende amene le visioni circostanti. Si entra in ogni abitazione con curiosità, cercando tracce di una vita antica. Non è difficile immaginare le viuzze traboccanti di suoni, di musica, di bambini impegnati nei giochi e di un vociare conviviale. Un’allegra piazzetta è luogo della meritata sosta. Approfittiamo dell’ora favorevole per esplorare le zone limitrofe, prima di imboccare la via del ritorno.
Si era detto che questo posto fosse multiforme e non ci vuole molto prima che sopraggiungano numerosi pensieri: che quello di Africo non sia un destino isolato? Cosa può voler dire abbandonare il proprio paese per reimpiantarsi in un altro? Ripensare al paese, adesso, genera tristezza e pietà.
Improvvisamente quell’insperata allegria svanisce, i volti si fanno cupi, non si sentono più risate conviviali. Ognuno, in silenzio, prosegue nelle ombre che si allungano sulle montagne. Un dedalo di fiumare e versanti scoscesi si intrecciano attorno a noi. Basta allungare lo sguardo ed in fondo alla vallata si scorgono altri villaggi diruti e abbandonati. La speranza ha da tempo lasciato questi luoghi. In pochi, di rado, si recano qui. Sempre di meno sono gli originari abitanti, ormai vecchi e logori. A breve di Africo, di Roghudi e di Ghorio non si avranno che lontane testimonianze. L’abbandono di un luogo comporta la morte dello stesso.
Di un posto si può ammirare anche la sola bellezza paesaggistica, ma è poca cosa in confronto al senso di compenetrazione che creano quei luoghi sui quali vi è stato un vissuto umano. Più è antico questo vissuto più quel luogo sembra parlarci. Un bel bosco, una valle, un panorama possiamo apprezzarli per tantissimi motivi, ma nulla come la consapevolezza che in un dato luogo si siano consumate storie, dolori e passioni coinvolge l’animo e spinge a ricercare e ricercare. La storia millenaria dell’area grecanica svanirà in assenza di persone che la portino avanti.
E’ importante rimarcare che questa eventualità non deve suonare come un allarme vuoto e fine a se stesso, atteso l’endemico spopolamento della regione aggravato negli ultimi anni dal permanere di ataviche problematiche. L’ultimo rapporto Svimez, pubblicato nell’Agosto del 2018, prevede che nei prossimi cinquanta anni la Calabria perderà 500 mila abitanti, ovvero un quarto dell’attuale popolazione. La vicenda di Africo, in tal senso, deve necessariamente essere un faro di memoria.
La notte giunge terribile in questi luoghi, non c’è alcuna luce, nemmeno in lontananza. Si intuisce la forma delle pareti scoscese soltanto perchè qualcosa copre la luce delle stelle. Un profondo senso di sconforto attanaglia l’animo quando si spazia con lo sguardo in questo buio nero e sordo. Non si riesce a trovare alcunché da esaltare qui sotto, non si può abbellire qualcosa di così terribile. L’isolamento dal mondo porta alla miseria. La fine è già giunta in questo luogo.
Davanti alla necropoli resto solo, lasciato in un muto cammino. In fondo all’oscurità giacciono sogni e memorie, circondati da templi e città crollate sulla fredda terra. Resto solo, restiamo soli. Questa non è la fine, è l’inizio.
A tutti gli Africo del mondo.
Sono nato dall'increspatura dell'onda. Non ho deciso io il mio destino, ma il mare che tutto sospinge e muove. - Tu navigherai - mi disse un giorno. E così sono alla ricerca di Itaca. Ho un cuore mediterraneo, crocevia di emozioni e incoerenze, come i molti popoli di questo mare. Ma come posso dire con certezza chi sono?
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