I Vattienti. Non dobbiamo spiegare la Calabria.

Da una viuzza giunge un ragazzo vestito di nero, con una corona in testa. Tiene gli occhi bassi. Il passo rapido, come chi ha un percorso chiaro da seguire, indifferente a quello che lo circonda. Lo segue un giovane vestito di rosso, tra le braccia porta una croce. Che strana coppia.

Sono il Vattiente e l’Ecce Homo. I due rappresentano le ultime fasi della vita di Cristo: la flagellazione e il cammino con la croce.

Il Vattiente colpisce i suoi polpacci e le gambe con la rosa, un pezzo di sughero in cui sono conficcati tredici pezzi di vetro. Poi passa sulle ferite il cardo per asciugare il sangue. Solo a questo punto interviene una terza figura, che ha lo scopo di versare il vino sulle ferite per lavarle.

 

 

     1. L’arrivo

Il vino mi spinge, il vino folle,

che fa cantare anche l’uomo più saggio.

Omero

 

Sabato 30 Marzo 2024. Nel paese di Nocera Terinese sono in corso le celebrazioni liturgiche della Pasqua. Un particolare e controverso rito avviene in questo giorno. Si tratta del rito dei Vattienti. Per l’occasione accorrono al paese fedeli e curiosi da tutta la Calabria. La piazza della Chiesa Matrice di San Giovanni Battista è ricolma di gente. La luce del mattino inonda le strade e acceca gli occhi.

Quando giungo in piazza ci sono già i segni del passaggio dei Vattienti. La pavimentazione è imbrattata di sangue e vino. I passi che muovo sono accorti e timorosi, evito di calpestare i rivoli che in breve tempo si seccano. Il vino evapora sotto il sole primaverile e spande il suo profumo. Ritorno così alle vie del paese di mio nonno, quando in autunno il mosto e l’uva salivano per le vie e le case.

 

 

I dolci pensieri sono interrotti da uno scroscio d’acqua. Da una saracinesca aperta per metà sbuca un uomo, apparizione improvvisa. Ha un secchio in mano. Compie pochi rapidi passi e versa il suo contenuto. L’acqua diventa rossa e scorre verso le viscere della terra. Quel gorgo trascina ogni sporcizia e mescola ogni cosa: sangue, vino, polvere. Tutto si unisce, tutto nutre la collina su cui dorme Nocera.

Uno alla volta i Vattienti passano per la piazza. Girano per il paese e così uniscono l’intera Nocera nel rito. Il ritmo cadenzato con cui si battono risuona tra le vie. Non emettono un verso. I loro volti sono freddi e privi di emozioni.

 

    2. L’accettazione

Solamente altro sangue può calmare il mio. E che scorra inquieto, e poi sazio. […] Ma ho bisogno di stringere a me un sangue caldo e fraterno. Ho bisogno di avere una voce e un destino.
 – Cesare Pavese

Continuo ad evitare il sangue, ma più mi muovo e più sono in bilico. Man mano che giungono i fedeli, man mano che il sangue e il vino scorrono inizio a sentirmi diverso. È come se il corpo fosse attirato da qualcosa a lui simile. Il sangue per terra è lo stesso che scorre nelle mie vene e il vino è lo stesso che ho bevuto altre volte. Mi ritrovo ora a piedi ben saldi sul terreno ormai grondante. Non lo temo più. Ora sono connesso per davvero con Nocera. Sono un tutt’uno col sangue e col vino della sua gente.

Mi accorgo che nessuno dei Vattienti mi guarda. È come se per loro non esistessi. Forse questa è forse la cosa che più ci spaventa, o che forse ci rende liberi per davvero: che qualcosa o qualcuno sia indifferente alla nostra presenza e al nostro destino.

In quegli istanti incontro gli occhi grigi di uno di loro. Evita il mio sguardo come se fosse un tragico errore. L’uomo inizia a colpirsi più forte di prima, per espiare un peccato. Questa visione mi lascia senza fiato, attorno a me l’alta chiesa con la sua cupola sembra elevarsi e assumere strane forme, mentre sprofondo nella folla che mi circonda.

 

 

È curioso a volte notare come piccolissimi istanti, minuscole frazioni della vita siano molto più potenti di interi giorni o mesi di una vita senza sussulti. Quel secondo, quello sguardo non l’ho ancora dimenticato. Mi segue. È come i ricordi offuscati della nostra infanzia, quei momenti che ci impressionano per la loro carica incomprensibile ma seducente, che ci lasciano interdetti e senza forze.

 

    3. Non dobbiamo spiegare la Calabria

Tragedia, dunque, è mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa […] in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni.
– Aristotele

Sterile è la ritualità intesa come una tradizione, qualcosa da preservare, insensibile al presente. Del rito è più interessante il lato umano e terreno, la parte viva e magmatica. La ritualità è controcorrente: cosa c’è di più rivoluzionario dell’azione priva di un fine materiale e di una ricompensa?

Il pover’uomo è sempre spaccato tra i suoi “si deve” e “non si deve“, calcolatrice alla mano. Così il poveretto dimentica la sua natura, mentre si affanna per ritagliarsi un angolino di vita senza scossoni. Cerca di mettere in ordine quelle poche cose che ha, abbellisce il salottino, spolvera le cornici. L’ordine regna, fonte di ogni bene.

Eppure, ciò non evita che nel salottino giungano immagini e notizie dall’esterno, dal mondo di fuori. Così sperimentiamo, ogni giorno, quanta violenza ci sia nelle parole, nei gesti, nei pensieri che ci circondano. Possiamo negare la violenza insita in una società che costringe al bisogno, che  mette gli uni contro gli altri? Eppure di queste forme di violenza non ci preoccupano molto. L’importante è il nostro ordine, che nulla sporchi dove è pulito.

Invece, a Nocera versano per terra sangue e vino. E per quanto sia comodo pensare che la vita sia giusta e retta, le persone nascono nel sangue e spesso – purtroppo – muoiono nel sangue. Sta a noi capire i limiti del nostro potere di fare del bene o di fare del male. E’ la realtà, il vivere sociale, metaforicamente la vista del sangue, che educa ad evitarne lo spargimento. Il valore dell’uomo non è astratto, ma tutto terreno.

Tutte queste parole per dire cosa?

Per dire che in un minuscolo angolo di mondo, la Calabria, è ancora possibile avere un rapporto diretto con la vita. Un rapporto certamente difficile, complesso, dove però i problemi e le perversità hanno natura umana, culturale. Contro queste si può reagire, si può alzare la voce.

Ecco perché la Calabria ci proietta verso il futuro. La Calabria è rimasta fuori dalla modernità, per meriti o per demeriti: qui è ancora possibile pensare ad un futuro umano e sostenibile. Vinte le nostre battaglie, avremo una terra bellissima, non intaccata dal grigiore della modernità. O forse no, non occorre neppure vincerle. Perché la lotta è vita stessa, e forse senza lotta non c’è neppure la vita. La Calabria è viva e crea futuro anche ora da incatenata.

E’ vero che la Calabria è complicata. Ma ciò non ci esime dalla ricerca. Noi dobbiamo andare in profondità sempre. Perché profonda è l’anima della Calabria. Non possiamo accontentarci della superficie, perché grandi insegnamenti ha da darci. La Calabria è piccola, ma contiene dentro sé il mondo intero. La sua forza non è quella di restare immobile entro confini certi, ma di estendersi e andare oltre.

Alla fine di tutto questo, cosa importa della sterile diatriba sulla difesa del rito dei Vattienti o sulla necessità di abolirlo? Cosa importa se è barbaro? Certo che lo è, e allora?

Così è la Calabria: sfuggente, indifferente alle nostre pretese, inafferrabile, illogica, insensata. Eppure, umana. Simile alle persone, agli individui, a quell’altro-da-noi così importante che senza non possiamo vivere. Tra le crepe delle sue ingiustizie e delle sue barbarie fioriscono storie e animi infiniti.

Allora perché affannarci a raccontare una Calabria che non esiste? Perché darne un’immagine idilliaca? Non dobbiamo spiegare la Calabria, non dobbiamo giustificare i suoi difetti, non dobbiamo mettere le mani avanti. Raccontarla sì, ma con gli occhi e con la parola sicura di chi non deve spiegare niente a nessuno.

Lo sappiamo bene che la Calabria è povera, che non ha nulla da offrire. Ed è per questo che la amiamo, perché non cerchiamo nulla da lei. Anzi, sta a noi portare qualcosa, curarla, tanto chi rimane e tanto chi va via. Noi la Calabria l’amiamo così, e così vogliamo che rimanga. Di una Calabria priva di anima non sappiamo che farcene.

Ovunque saremo la Calabria è la nostra meta. La Calabria è qualcosa che ci appartiene. È un significato che non sappiamo spiegare. Ma soprattutto, è un significato che non dobbiamo spiegare.

 

Sono nato dall'increspatura dell'onda. Non ho deciso io il mio destino, ma il mare che tutto sospinge e muove. - Tu navigherai - mi disse un giorno. E così sono alla ricerca di Itaca. Ho un cuore mediterraneo, crocevia di emozioni e incoerenze, come i molti popoli di questo mare. Ma come posso dire con certezza chi sono?

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