Escape From LA è una canzone di The Weeknd che parla di una relazione distruttiva. Distruttiva non perché nessuno dei componenti della coppia abbia alcuna colpa in particolare, anzi, i due sembrano abbastanza innamorati. Ciò che distrugge la coppia è il ritrovarsi in un contesto malato, un mondo cattivo, quello di Los Angeles in cui “tutte le ragazze hanno la stessa faccia, tutte si fanno fare lo stesso lavoro” (di chirurgia plastica). Los Angeles è la capitale dello star system mondiale, in cui ci si trasferisce per poter “diventare qualcuno”, che sia nel mondo della musica, della moda, dello spettacolo, il sogno del sogno Americano.
Similmente, qualche giorno fa, Damiano David, frontman dei Maneskin, ha parlato a Cachemire Podcast della distruzione che la città californiana può portare nella vita delle persone, portandole a cercare di raggiungere sempre di più il successo fine a se stesso, lasciando indietro le relazioni umane e la propria sanità mentale, inseguendo soldi e fama.
Forse è qualcosa che riusciamo a immaginare senza però riuscire a comprendere pienamente. Comunque, anche grazie a internet, la cultura americana di “diventare qualcuno” si è esportata anche in Italia. In Italia, la città dove “si è qualcuno” è Milano, il capoluogo lombardo terra dei sogni e degli affitti spropositati. Chi non vive la città e si sposta da una realtà di provincia verso una città come Milano, tende a vedere questa sempre per quello che non è. Ad esempio, ti sembra più grande di ciò che è (spoiler: è grande quanto Lamezia Terme), anche perché sembra il baluardo della modernità. Milano è una città italiana paragonabile a Parigi, Londra, New York, ad esempio per la fashion week che tiene ogni anno tra le più importanti al mondo. Milano però non riesce mai ad essere come le altre città europee, resta sempre, come direbbe il noto attore di una celeberrima fiction, “troppo Italiana“.
Milano è la città dove tanti ragazzi provenienti dalle realtà più piccole del sud Italia si spostano per l’università, cercando lavoro nelle aziende, sottostando a ritmi veloci, affitti alti, e alla qualità dell’aria tra le peggiori al mondo. Nulla di sbagliato in questo, tranne il non riuscire ad immaginare di costruire qualcosa altrove.
Il culto del “diventare qualcuno” si è sparso per il mondo, riempiendoci la testa di persone che “ce l’hanno fatta”. Il diventare qualcuno fine a se stesso, senza una vera motivazione dietro. Il diventare qualcuno per riempire il vuoto interiore della mancanza di personalità e di aspirazioni oltre all’approvazione altrui. Riempire il profilo di LinkedIn utilizzando parole in inglese a caso nel discorso per rendersi più interessanti, nella foto profilo in giacca e cravatta mentre tengono un microfono in mano su un palco, il business Milano/Dubai, i traguardi ottenuti nelle aziende.
È facile perdersi in un contesto come LA, come diceva DamianoDaiManeskin, ma è ancora più facile perdersi in un mondo in cui il punto di riferimento culturale sembra essere diventato quello di LA quando ti trovi in un luogo completamente diverso. Non c’è la possibilità di ottenere il successo o i titoli che un Americano in carriera ha sul curriculum, e non dovrebbe essere una priorità emulare quel tipo di successo. Semplicemente perché avere un titolo più interessante accanto al nome non dovrebbe rendere più interessante le persone.
Last Stop Before Chocolate Mountain (2022) esplora la storia di Bombay Beach, una comunità che abita poco fuori Los Angeles, una comunità senza leggi, senza polizia, senza un municipio, senza burocrazia. La comunità nasce nel 1905 sulle rive di un fiume tossico, e durante l’arco del film si intuisce che la cittadina fosse abitata solamente da una popolazione ormai anziana: “sembrava quasi una casa di riposo”.
Con il passare del tempo si scopre che la cittadina si sta lentamente ripopolando: eccentrici, artisti, musicisti, i losangelini scappano dalla grande città per costruire un modello di vita diverso per ritrovare se stessi e una nuova dimensione creativa, lontana dalla città che opprime. Bombay Beach in realtà godeva da tempo di una relativa popolarità, grazie alla sua estetica suggestiva, desertica e abbandonata ma allo stesso tempo eccentrica (per esempio, uno dei protagonisti afferma di aver venduto la lampadina di un vecchio caravan su eBay a un prezzo spropositato!).
Bombay Beach è un luogo dove si ritrovano quelli che vogliono “fuggire da Los Angeles”, principalmente per i prezzi troppo alti. Leggendo alcuni commenti sul film, ho visto che la comunità è stata definita come un luogo in cui si fugge dagli affitti troppo alti. In realtà, la fuga è ben più complessa e approfondita: è una fuga dalla realtà soffocante, dove spesso gli artisti sentono la pressione di dover entrare nella cerchia giusta per poter finalmente “essere qualcuno”. Bombay Beach invece è la creazione di un nuovo paradigma, in cui l’unica cosa che conta è la creatività. Fare qualcosa di diverso, costruire dal nulla, creare una comunità.
Questo stesso paradigma è quello che sognerei di vedere nel mio paese. Io sono la prima a subire il fascino di andare via, di vivere nella grande città, qualcosa a cui in fondo ho sempre pensato. La grande città è bella per le opportunità che offre, per le persone che incontri, per il movimento culturale. Ma quando queste cose restano fini a se stesse, quando si sente di dover vivere in un luogo solo per sentirsi di “avercela fatta”, forse è arrivato il momento di cambiare e di costruire in un posto in cui non è stato già fatto tutto.
(Frase del film)