Capitolo 3 tratto dal romanzo: “Sogni di Sangue” – Lorenza Ghinelli, ed. Newton Compton
Immagine in evidenza: Untitled 017 – Edward Avedisian, 1965
Nebbia.
Enoch potrebbe trovarsi in qualsiasi luogo, ovunque vaghi, il suo sguardo, quel che vede è nebbia. Eppure l’odore che gli si aggrappa alle narici è quello limaccioso e selvatico del fiume dietro casa. La nebbia deve finire, è questione di passi. Basta lasciarsi l’odore del fiume alle spalle.
Un passo e un altro ancora, lo sciabordio dell’acqua lascia posto al silenzio. Dovrebbe sentirsi più sicuro, Enoch. Ma ora, privo di punti di riferimento e assediato dalla nebbia, ha persino più paura. È per questo che si ferma, ha bisogno di pensare.
Pensa e respira.
L’aria è gelida, dalla bocca gli escono nuvole dense, grigie come ogni cosa intorno. Se continua a respirare, ne è certo, non vedrà più neppure la punta del proprio naso. Poi il silenzio si spacca e qualcosa di nascosto sfrigola. Enoch ha il terribile sospetto di sapere dove si trova. Guarda l’unica cosa che può vedere, i suoi piedi. Poggiano sopra il tombino. E il tombino vomita una marea nera, densa e coriacea. Blatte, un esercito di enormi blatte che gli si arrampicano sulle gambe, ricoprendo ogni millimetro della sua pelle. Quando grida gli entrano in bocca calandosi dentro, lungo l’esofago. Enoch non è più Enoch, ora. È un bambino nero e brulicante. Camminare. Dovrebbe camminare, fuggire e pestare, ucciderle tutte, tornarsene a casa. Ma al primo passo che muove di lui non resta più nulla: Enoch si sfalda. Scarafaggi. Ci sono solo scarafaggi dove prima c’era il bambino. Nonostante questo, Enoch vede, con milioni di occhi neri e veloci. Le prospettive sono nuove, sorprendenti: non le comanda. I milioni di occhi appartengono a milioni di corpi, coriacei e zampettanti, che ridiscendono il tombino di scolo fino al pavimento sudicio e infetto del condotto fognario.
Almeno, non c’è più nebbia.
Frenesia. Ecco cosa prova quel che permane di Enoch, un’essenza frammentata tenuta assieme da una smania a cui non riesce a dare nome. Le blatte si ricompattano, una macchia nera e sterminata come i campi dell’odio. E la macchia muta. Le blatte non sono più blatte ora, e nemmeno bambino. Nel condotto fognario sotto il capannone industriale, adesso, c’è un verde coccodrillo, vorace, come i buchi neri che popolano l’universo.
Enoch non ha pensieri. È fatto di squame, denti e istinto. E occhi gialli dotati di tre palpebre. Avverte piacere alle zampe palmate, l’unica cosa che lo chiama è l’odore. L’odore appartiene a un umano. L’umano ha un nome: Alex. [il bullo della scuola]
Enoch avanza sulle sue zampe palmate e tozze lungo i condotti fetidi. Quando si fanno stretti e sdruccioli striscia con gioia sulla pancia, nei liquami riesce persino a nuotare. Tutto avviene spontaneamente, senza l’ombra di un pensiero.
In un raccordo tra due canali incontra un ratto di trenta centimetri, pelo ispido e infetto, coda spessa, certamente rosa persino nel buio. Il ratto squittisce: incisivi gialli e scheggiati. Enoch apre le fauci e lo ingoia intero. Sibila, un verso gutturale, primitivo, felice. Il suo apparato valvolare gli consente una chiusura ermetica delle orecchie, perfetta. Le terze palpebre, trasparenti, si serrano a proteggere gli occhi. Striscia verso un altro canale più basso, saturo d’acqua. Enoch s’immerge. Nuota.
E risale.
Le sue zampe anteriori poggiano sul fango, dai cieli precipitano proiettili di pioggia acida e c’è vento e nessuna strada, ma solo un pantano che sciaborda affogando il greto. Con un colpo di coda Enoch esce dal pozzetto della fognatura, aperto come una bocca assetata.
Occhi, orecchie e narici, sulla stessa linea, assomigliano a una freccia scagliata nel buio, percepiscono Alex vicino, vicinissimo, avvolto in un impermeabile che sotto la luce del sole certamente sarebbe azzurro. Quando Alex scorge la sua sagoma rettile non fa in tempo a gridare. Rapido, letale, Enoch spalanca le fauci.
E si sveglia.