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“Libere disobbedienti innamorate – In between”, Bar Bahr, tra terra e mare, né qui né altrove

Cosa ne pensano le donne occidentali delle donne palestinesi?

C’è da chiederselo, ultimamente, in queste contingenze di letterature allargate, e di mani che scrivono insieme ad altre mani, che pubblicano diari, libri, autobiografie di resistenze o di resilienze in paesi che noi occidentali immaginiamo sempre così lontani, ma poi scopriamo essere vicini, nei sentimenti umani: l’approccio amoroso, l’indignazione verso una violenza, la solidarietà, la dolcezza, la poesia di un abbraccio fra un padre e una figlia, l’ostilità e il disonore di altri padri che portano a scappar via di casa altre figlie. L’ omosessualità. Un confronto necessario, attuale, e che grazie ai mezzi di comunicazione, grazie al cinema diviene oggetto di approfondimento, di scambio fra culture diverse, di arricchimento.in-between-09

Sono donne che abitano in terre sradicate, piene di conflitti, in cui, il più delle volte, sono le religioni a creare maggiore caos. Particolarmente interessante si è rivelato il film “Libere disobbedienti innamorate – in between”, visionato ieri sera all’interno della rassegna cinematografica di UNA, a Lamezia Terme. Film della giovane regista Maysaloun Hamoud, con Mouna Hawa, Sana Jammelieh, Shaden Kanboura, Mahmud Shalaby, Riyad Sliman. Tre donne arabe in una Tel Aviv che ribolle di cultura underground. Tre giovani ostinate e coraggiose per una riflessione a cuore aperto sull’indipendenza femminile. Interessante il confronto fra Laila, Salma, Nour. E fra la loro voglia di libertà, di ricerca della propria identità, che prescinde dall’essere laici, religiosi, cristiani, musulmani. Un disorientamento fra terra e mare, fra l’essere parte di una generazione emancipata dalla propria cultura per adottarne una occidentale, una generazione, ancora, alla ricerca di libertà che prova a preservare il cuore della propria identità. Quello che è certo, è che le tre giovani donne sono ben lontane da società conservatrici, e contro di esse si trovano a combattere. Bar Bahr, il titolo originale, in arabo tra terra e mare, in ebraico né qui né altrove.

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Tre donne che, tracciando le intenzioni più universali, seguono il filo coerente della dignità umana, delle differenze, e del rispetto delle stesse. Chė questa, la dignità, non si perde andando a letto con un uomo. Fanno ardentemente capire, e qui le donne occidentali potrebbero riflettere,  che ciò che conta è la propria indipendenza, ché questa la si deve conquistare con gran fatica, dappertutto se si è donne. Inoltre, il sesso, la droga, il rock and roll, in una Tel Aviv parecchio progressista, in alcune scene di movida da anni ’60, sono elementi contrastanti, dai quali sicuramente non ci si distrae facilmente. Laila e Salma fumano erba e tirano cocaina, vestono trasgressive, ballano, e quasi sempre tengono in mano una bottiglia di alcool, ma al primo momento utile sono pronte a tirare una taccata in faccia a qualche maschietto che crede di poterle prenderle in giro. Sono queste le scene che conducono a una protesta di difesa dei valori arabo-musulmani lanciata dalla municipalità di Umm al-Fahm, paese da cui proviene Nour, una delle tre, la più timida e integralista che infine riuscirà ad affezionarsi alle altre due, più dannate.

Ma quelle dipendenze che per gli uomini oscurantisti israeliani sono tabù, non sono poi neppure così necessarie per le protagoniste. In una regia asciutta e più che mai reale, il film premiato a Toronto, a San Sebastian e ad Haifa Film Festival, inverte le prospettive riguardo i soliti stereotipi, quasi ad invitare a un nuovo sguardo, lontano da pregiudizi, uno sguardo che arrivi anche a toccare le repressioni e i retaggi moralistici di certi occidentali.  Se per un attimo queste contraddizioni trovano il modo di concretizzarsi, nel momento in cui si molla l’uomo e si passa ai rave, da schiavitù a schiavitù, subito si rimane sorpresi e in positivo. Le tre protagoniste, infatti, escono di scena, continuando a guardare da un lontano balcone ciò che lì dentro vi accade.

Valeria D'Agostino è giornalista pubblicista, curiosa del bello, amante della natura e della poesia. Ha contribuito a realizzare il Tip Teatro di Lamezia Terme, già ufficio stampa di Scenari Visibili, blogger sin dagli esordi di Manifest Blog. Ha lavorato per Il Lametino, attualmente corrispondente esterna della Gazzetta del Sud. Nell'ambito della scrittura giornalistica ha prediletto un interesse particolare per le tematiche sociali, quali in primis la sanità e l'ambiente, culturali, e artistiche. Si divide fra Lamezia Terme e Longobardi, costa tirrenica cosentina dove si occupa di turismo e agricoltura biologica. "Un buon modo per dare concretezza al concetto di fuga".

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