Come le mosche d’autunno: il gioiello dimenticato di I. Némirovsky

 

Ho sempre provato una certa ritrosia e un’innata idiosincrasia nei confronti di miti musicali, casi letterari, cinematografici, best seller, fantasmagoriche campagne pubblicitarie, romanzi primi in classifica e tutto ciò che viene sbandierato, esaltato, adulato, osannato per palesi operazioni di marketing. Quando nelle librerie cominciò a circolare insistentemente il nome della Némirovsky, invece, ne fui attratta magicamente. Non acquistai nulla, ma sapevo che il nostro incontro sarebbe avvenuto di lì a poco.

Come le mosche d’autunno romanzo breve di questa scrittrice russa  fuggita in Francia con la famiglia nel 1918, fu pubblicato a Parigi nel 1931 e in Italia da Garzanti nel 2017. È uno  dei testi meno conosciuti e meno famosi della scrittrice, nota al grande pubblico maggiormente per Jezabel, Il ballo e per Suite Francese. Di quest’ultimo ricordiamo la trasposizione cinematografica del 2014.
Come le mosche d’autunno è un piccolo gioiello: in poco meno di 100 pagine, la scrittrice è riuscita a condensare l’epopea della famiglia Karin, travolta, smembrata, annichilita dalla rivoluzione russa del 1917. Attraverso lo sguardo, i gesti, i silenzi dell’anziana njanja Tatjana Ivanova, contadina al servizio della famiglia Karin da oltre 50 anni, con grande abilità, grazia e maestria la Némirovsky ci consegna un ritratto della Russia e dei suoi strati sociali, capovolti dall’ideologia comunista, dal sangue, da efferati pogrom, dal dolore che solo la fine di un’epoca e lo sradicamento possono causare. Un testo che sarebbe perfetto per un adattamento teatrale: ogni personaggio emerge in modo netto, con chiari echi flaubertiani, zolaniani, checoviani e della grande scuola letteraria russa. Se in Jezabel si poteva vedere l’esprit di un romanzo di formazione, sul calco della scuola francese del realismo e dell’indagine psicologica, in Suite francese si compie un salto stilistico nella capacità narrativa, capacità che raggiunge il suo acume in Come le mosche d’autunno.
È facile comprendere, approfondendo la biografia della Némirovsky, come la limpidezza degli eventi sia frutto di un vissuto autobiografico: la rivoluzione russa, l’emigrazione, il senso di smarrimento, il difficile rapporto di Irene con una madre frivola, assente e il dolce ricordo della njanja. Si legge infatti nella prefazione : << Mi sembra importante precisare- scrive Nemirovsky nel 1931, presentando Come le mosche d’autunno- che il suicidio della vecchia Tatjiana è l’unico fatto veramente reale del racconto. Così è morta la mia governante, una donna devota e dal cuore semplice che mi ha educata, e che amavo come una madre>>. Semplicità, gentilezza d’animo, sguardo introspettivo che la giovane assorbe e che le permettono di descrivere la lenta dissoluzione di un mondo, il declino interiore, il classismo imperante, la violenza delle rivoluzioni “materiali” non suffragate da reali cambiamenti interiori. Tatjana non reggerà alla morte del giovane Jurij Nikolaevic, il figlio più particolare della casata, dallo sguardo triste, per mano del giovane cocchiere Ignat, suo compagno di giochi, incattivito dalla sete di vendetta contro i nobili.<< E’ uno sguardo che ho sempre visto nei ritratti delle persone che sarebbero morte giovani o in un modo tragico , mormorò Kirill con un certo disagio, come se già sapessero tutto e se ne infischiassero>>.  Partirà per Parigi, per ricongiungersi con i suoi padroni fuggiti mesi prima, ultima tappa della sua immobile, laboriosa ma felice vita, ove la sua mente si offuscherà sempre più, come la nebbia che avvolge la città. Una Parigi affatto scintillante, bensì buia, sporca, lacera, ubriaca di mesta frenesia. Le mosche d’autunno sono gli uomini e le donne che vagano senza una meta, con i cuori in tumulto, incapaci di adattarsi a nuovi continenti, nuove città, nuovi nuclei familiari, nuove amicizie, frutto di emigrazioni forzate, vittime dei meccanismi della storia che cambia i volti e spegne le speranze. La dolce, paziente e fedele njanja non potrà più contemplare la neve russa, le sue steppe, il suo freddo, i suoi fiumi ghiacciati, i fuochi del villaggio. Non avrà più bambini da accudire, bagagli da preparare, sereni palazzi su cui vegliare. Tatjana corre verso una neve immaginaria, che in realtà è la nebbia parigina, ultimo inganno di una città odiata, alla ricerca della pace e delle sue radici, del candore, della magia e della quiete che solo la neve può dare. La sua morte ci ricorda come sotto i colpi della Storia dei potenti periscano prima di tutti le persone deboli, le classi sociali meno abbienti, impreparate ad accogliere i cambiamenti, impazzite di fronte al crollo delle certezze.

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