“Troia!”. Se lo dicesse mia nonna ci starebbe tutta. La sua generazione ormai molto difficilmente potrebbe aggiornarsi su certi schemi mentali odierni. Se lo dicessero i miei genitori sarebbe finanche comprensibile: la loro generazione fu quella che respirò il boom economico e una grande apertura verso certi temi, ma fu comunque “soltanto” la prima. Ma se lo dicono i giovani d’oggi, miei coetanei o addirittura ragazzini adolescenti, siamo proprio alla frutta. Molti di questi tentano di argomentare con cognizione di causa; sono i più coerenti, quelli che conoscono bene certe alternative al loro modo di vivere la vita e non si fanno scrupoli a starne lontani. Molti altri, tuttavia, tralasciano ogni minimo ragionamento e ogni possibilità di compiere un considerevole “salto mentale”. Forse perché scomodo; forse perché difficile da fare? Probabilmente scelgono, questi, la via semplice del disconoscimento.
Locuzioni in auge specie durante ricorrenze specifiche (il caso dell’otto marzo) come: “troieggiare”, “fare la zoccola”, “perdere la dignità di donna”, non sono altro che il prodotto sublimato di processi di repressione interiore. Non si tratta di giudicare, dare giudizi o, peggio, fare la morale. Infatti chiunque, tra costoro, la prima cosa che vi dirà sarà: “non si tratta di giudicare, non si tratta di morale”. Si tratta di paura. E di non volerlo neppure ammettere.
L’immagine della troia o della “cagna” (orribile moda degli ultimi tempi) è lo stereotipo di cui si servono molti ragazzini insicuri di oggi (costoro saranno, a mio parere, i futuri insicuri di domani), corroborato dagli odierni mezzi di maxidiffusione di informazioni (i social network, whatsapp ecc…). Se ne servono innanzitutto per puro spirito d’innalzamento di uno status piuttosto normale e poi, cosa peggiore, per continuare a sentirsi quasi protetti da una sorta di enorme “bolla morale”, una bolla che li fa sentire superiori, “seri” contro gli iniqui, portatori di una verità assoluta. Inutile dire che la cosa peggiora quando nel cervello di costoro è presente una solida morale religiosa (qualsiasi essa sia). Eppure il cosiddetto “vaginocentrismo” è il punto focale di questa questione psicologica che ravvedo, ahimè, in molti giovani d’oggi, anche in moltissime donne. Vallo a spiegare che sentirsi “seri” sulla base di un minor numero di scopate occasionali è cosa alquanto deteriorante perché presuppone che un uomo o una donna faccia girare la propria etica e la propria morale attorno al sesso. Vallo a spiegare che ciò comporta, oltre che una privazione di godimento e piacere nella propria vita (non è mai ridondante sottolineare la necessità di una giusta educazione sessuale), una sempre maggiore distanza tra le persone, favorendo nei casi più “bassi” quegli orridi episodi di slut shaming ( = “onta della sgualdrina”). La sindrome del “se l’è cercata” è il punto d’arrivo di questa visione timorosa e vaginocentrica del sesso. La sindrome del “se l’è cercata” è la sconfitta dei giovani d’oggi.
Domenico D’Agostino
Vive a Lamezia Terme, legge e scrive dove gli capita. A tempo perso si è laureato in Beni Culturali e in Scienze Storiche, a tempo perso gestisce il blog Manifest e a tempo perso è responsabile della Biblioteca Galleggiante dello Spettacolo del TIP Teatro. Di fatto, non ha mai tempo. Ha esordito nel 2023 con il romanzo "Al di là delle dune" (A&B)