Nel 1524 Girolamo Francesco Maria Mazzola (1503- 1540), meglio noto come Parmigianino, aveva poco più di vent’anni quando decise di realizzare il proprio autoritratto su una piccola tavoletta di legno dalla superficie ricurva allo scopo di simulare la distorsione prodotta dal riflesso su uno specchio convesso (Fg.1). Il quadro mostra il giovane pittore intento a rappresentare se stesso all’interno di una stanza. Tutto è ben congegnato in modo da colpire chi osserva: gli abiti eleganti, il candore del volto, la mano grandissima in primo piano, lo spazio deformato della stanza.
Parmigianino, Autoritratto entro uno specchio convesso, 1524 circa, olio su tavola convessa, cm 24,4×24,4. Vienna, Kunsthistorisches Museum
Ogni elemento del quadro serve a destare stupore, a catapultarci in un mondo misterioso e ambiguo. La preziosa tavoletta, realizzata poco prima della partenza per Roma, era stata realizzata per ottenere visibilità nel mercato artistico romano; essa, infatti, fu donata a papa Clemente VII, il quale successivamente la regalò all’umanista Pietro Aretino, per poi finire nelle mani di diversi collezionisti. Il giovane Mazzola aveva lasciato Parma con la speranza di realizzare un sogno ambizioso: diventare l’erede di Raffaello Sanzio, punto di riferimento ‘assoluto’ per tutti i giovani artisti del tempo. Quest’opera costituiva una prova di virtuosismo, la dimostrazione delle proprie abilità pittoriche, mettendo in luce anche i suoi precoci interessi per l’alchimia e la sperimentazione prospettica. Il primo a darci un giudizio critico del dipinto fu Giorgio Vasari che scrisse così:
Per investigare le sottigliezze dell’arte, si mise un giorno a ritrarre se stesso, guardandosi in uno specchio da barbieri, di quei mezzo tondi. Nel fare ciò, vedendo quelle bizzarrie che fa la rotondità dello specchio (…) gli venne voglia di contraffare per suo capriccio ogni cosa.
( G.Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori, 1568)
Con l’espressione “investigar sottigliezze”, Vasari voleva sottolineare alcuni aspetti peculiari dell’opera di Parmigianino. In questa descrizione, infatti, emerge chiaramente il profilo di un artista poliedrico, incline alla sperimentazione, alla continua ricerca di “stranezze”, “bizzarrie”, “artificio”. L’uso di termini antinomici come “ritrarre” e “contraffare”, ci porta a supporre che l’artista desiderasse superare l’idea platonica dell’arte intesa come pura rappresentazione della realtà fenomenica. Il modello raffaellesco, che tanta influenza ebbe nella sua carriera pittorica, venne gradualmente rielaborato da Parmigianino attraverso uno stile elegante, fortemente intriso di elementi alchemici e poetici. Le sue composizioni caratterizzate da un’innata grazia nel disegno e una «certa vivezza di spirito e nelle invenzioni» lo renderanno una figura di primo piano per gli sviluppi della corrente manierista. Dopo il Sacco di Roma del 1527 la “bella maniera” si diffuse in maniera capillare presso le varie corti della penisola, trovando il proprio punto di riferimento nelle opere di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, i quali avrebbero superato la natura stessa raggiungendo la bellezza ideale. Questo nuovo concetto di imitazione della maniera o stile dei grandi maestri, condusse a un’idea dell’arte come rappresentazione dell’idea e non come mimesi della natura; in particolare, le regole, i canoni, i limiti si codificavano a partire dalle opere e dallo stile diligentemente e rigorosamente studiati. Appare necessario, infatti, un certo grado di licenza al fine di consentire, all’interno della regola, l’acquisizione di un tratto distintivo, un’autonomia, un margine d’invenzione. Inoltre nel Cinquecento si ridusse progressivamente lo iato tra teoria e prassi del disegno, il quale divenne strumento fondamentale del processo creativo, nonché il padre delle arti. Secondo Antonio Pinelli tutta l’estetica manierista si dibatte intorno alle due polarità dell’«imitar» e del «ritrarre». Tale concezione è stata espressa da Vincenzo Danti nel suo trattato del 1564. Anche Erwin Panofsky, in un suo celebre scritto, ribadisce come il tratto distintivo del manierismo sia questa dicotomia tra la rappresentazione fedele della natura (imitatio) e il ritrarre solo le parti più belle della natura (electio). In questo clima generale di rinnovamento le regole prospettiche rinascimentali appaino insufficienti, pertanto gli artisti, nel tentativo di distaccarsi da una resa puramente mimetica dello spazio, tendono sempre di più a creare sapienti effetti illusionistici.
Nell’Autoritratto di Vienna, infatti, Parmigianino sperimenta l’uso di uno specchio dalla forma convessa al fine di ottenere un’immagine alterata e deformata della realtà. In questo caso lo specchio assume diverse valenze simboliche: esso potrebbe rappresentare un mezzo per esplorare i confini tra mondo sensibile e intellegibile – tale aspetto si collegherebbe agli interessi di Parmigianino verso l’alchimia – ma potrebbe anche alludere al tema della vanitas o riferirsi all’idea del “doppio”. Inoltre sullo sfondo del dipinto si nota la presenza di una finestra, elemento allusivo che indica un varco aperto verso l’esterno. Questi aspetti sono rintracciabili anche in alcuni disegni realizzati in età matura dall’artista. Ad esempio, lo Studio di filosofo seduto con sfera (fig.2), realizzato con un tratteggio fluido e spesso, raffigura un filosofo o un astronomo intento a guardare fuori dalla finestra. Alcuni studiosi hanno identificato la presenza della sfera come un richiamo all’alchimia, mentre l’elemento della finestra potrebbe alludere all’idea di ‘soglia’ tra spazio interno ed esterno.

Emblematico è anche il disegno dal titolo Allegoria della pittura (fig. 3) che raffigura una donna dalle forme slanciate intenta a disegnare o dipingere una tavoletta nel tentativo di eguagliare la natura. La scelta di questo particolare soggetto iconografico si collega a quelle ricerche e sperimentazioni riguardo i limiti e le possibilità della pittura di ritrarre e contraffare la natura, tema che caratterizza tutta l’attività di Parmigianino sin dall’età giovanile.

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