Da quando scrivevo sul mio diario, chiusa in camera all’imbrunire della giornata, n’è passato di tempo.
Allora manco ci pensavo alla scrittura, allora scrivevo e basta, ed ero solo io a leggere, non mi importava sapere di un destinatario diverso.
Forse scrivevo per noia, o per dolore, perché mi veniva spontaneo farlo, non curante della forma, della grammatica, della punteggiatura (quante virgole!), non curante di nulla. A ripensarci bene quella scrittura era fortemente introspettiva.
E quindi la mia scrittura, oggi tanto celebrata all’esterno, ha avuto origine proprio da un’esigenza interiore. Niente aspetto sociale, niente rivoluzione.
Nell’epoca della precarietà collettiva, in cui non basta più il lavoro standard di avvocato, medico, ecc, ecco arrivare il lavoro dello scrittore, antico certo, ma assai svilito.
Già! Perché di Moravia o di Pirandello ne nasce uno su un milione, ma intanto finché l’Unione Europea costruisce bandi, avvisi pubblici e crea concorsi, tutti possono aspirare a diventarlo. Così diventa distante qualsivoglia discorso improntato sull’etica della scrittura, sul valore della letteratura, sulla spinta che la parola può avere sul mondo, sulle sfaccettature, sulla bellezza, e sulla educazione verso le nuove generazioni alla cultura, quella che forma, lascia sempre un segno.
Non bastano più i festival estivi, che nascevano qualche decennio fa quale riscoperta dei luoghi oggi scaduti in retorica sterile e vuota, adesso non si curano più le stagioni.
Si avviano bandi, senza pensare minimamente a chi saranno diretti, senza pensare al perché, al tipo di peso che avranno sugli studenti, si attivano progetti e alternanza scuola lavoro dentro circoli di riunioni volti ad insegnare la borghesia del sapersi accomodare a una poltroncina rosso in velluto.
Cosa andiamo a dire, o non andiamo a dire, con la nostra scrittura, oggi,nelle periferie di questa Italia?
Senza porsi domande, senza creare dubbio, senza andare oltre lo slogan e le mode, resteremo piccoli robot che maneggiano briciole della Unione Europea o della misera Regione Calabria, presa in giro dal resto del paese e dei paesi del mondo.
Ogni volta che qualcuno esalta per aver vinto un bando culturale è una profonda tristezza, perché troppi sono oggi quei contenitori vuoti, inutili, con cui i giovani avranno a che fare.
Cosa andiamo a dire, o non andiamo a dire, con la nostra scrittura, nelle periferie d’Italia, dove le catene della criminalità organizzata fra i padri e fra i figli non vengono mai spezzate.
A che serve la letteratura contemporanea senza praticare la parola responsabile e viva?
Valeria D'Agostino è giornalista pubblicista, curiosa del bello, amante della natura e della poesia. Ha contribuito a realizzare il Tip Teatro di Lamezia Terme, già ufficio stampa di Scenari Visibili, blogger sin dagli esordi di Manifest Blog. Ha lavorato per Il Lametino, attualmente corrispondente esterna della Gazzetta del Sud. Nell'ambito della scrittura giornalistica ha prediletto un interesse particolare per le tematiche sociali, quali in primis la sanità e l'ambiente, culturali, e artistiche. Si divide fra Lamezia Terme e Longobardi, costa tirrenica cosentina dove si occupa di turismo e agricoltura biologica. "Un buon modo per dare concretezza al concetto di fuga".