“Suite of the Nine Mountains” il nuovo lavoro discografico di Giorgio Caporale

Giorgio Caporale si racconta: “Non mi piacciono etichette, ho sempre cercato approccio con altre persone”

 

Giorgio Caporale è un musicista lametino che non ama le definizioni. Dopo il liceo artistico a Catanzaro prosegue i suoi studi in architettura ma si rende ben presto conto, stando sin dalla tenera età a contatto col mondo della creatività e dell’arte, che la sua strada è la musica. Giorgio Caporale, infatti, è figlio d’arte, suo papà Francesco Antonio Caporale, pittore e sculture, ha rappresentato la sua fonte d’ispirazione e la materia prima dalla quale iniziare a mescolare diverse forme espressive e diversi colori.  Il suo percorso artistico musicale forma nel tempo un variegato bagaglio, passando da generi diversi, iniziando col rock, con il gruppo Contatto,  con il jazz, poi con il blues, ma ciò che colpisce di Caporale è la sua ricerca e la sua costante sperimentazione, la capacità di esplorare sempre nuovi linguaggi e soprattutto la sua apertura al mondo. Vive la musica in maniera totalizzante. Attraverso di essa cerca di esprimere le sue personali emozioni.

Hai dei maestri di riferimento? Come ti sei formato?

Certo, ho avuto numerosi maestri di riferimento, come Gigi Cifarelli, Bebo Ferra e altri, che per lo più sono stati maestri di vita, per il resto ho approfondito viaggiando molto. Dentro casa avevo la fortuna di avere diversi strumenti, dal sitar, alle percussioni, alle chitarre, ma la cosa fondamentale non è stato tanto lo strumento quanto i dischi, i vinili di mio padre che mettevo su continuamente, per cui già da bambino avevo un ascolto piuttosto impegnativo, che andava dal rock al jazz, al blues… ascoltavo di tutto, passavo ore e ore sui dischi. Successivamente mi sono messo a suonare, a livello non proprio professionale ma volevo comunque spingermi oltre nelle cose, e lì ho capito che l’unica cosa da fare era lo studio, quindi non soltanto limitarmi ai dischi.

Che rapporto hai con la musica? Qual è stato il tuo approccio partendo dagli esordi ad oggi?

L’idea è stata ed è tuttora una costante, è molto importante per me parlare di progetto. Ho sempre cercato qualcosa di completo. Anche nell’ascolto di un brano mi capitava di andare a ritroso, c’era la voglia, l’esigenza, di scoprire di più sull’artista.

E in questo tuo ‘cercare’ c’era qualcosa che ti riconduceva a te?

La musica è stata per me anche una ricerca introspettiva. Se io ascoltavo un famoso jazzista andavo sempre a ricercare nelle origini, e questo è un modo per scavare dentro se stessi. Strada facendo è diventata una traccia fondamentale della mia vita, un rapporto intimo che ho cercato e che continuo a cercare. È come se avessi una vita parallela per cui sono qua sulla terra ma contestualmente c’è qualcosa che cammina insieme a me, che mi insegue, e con la mente e l’anima sono lì… a toccare le cose più spirituali.

Il tuo percorso artistico è maturato negli ultimi tempi?

Chiaramente si, ogni qualvolta mi approccio ad un progetto, ad esempio quello su John Lennon, è qualcosa di impegnativo e pregnante, non tanto dal punto di vista tecnico – musicale, perché su questo ci si può lavorare facilmente, quanto per il tipo di approccio alla biografia dell’artista, in modo particolare rispetto alla melodia.

Cosa intendi per melodia?

Viviamo in un periodo in cui si cerca sempre di fare troppo perdendo di vista la melodia. La melodia non si studia ma si sente, e in questo mi avvicino a Lennon perché c’è dietro una poetica, un impegno sociale, un’essenza profonda. Per me è molto importante indagare sulle scelte di vita di un artista rispetto alle scelte di un altro, è in questo fluire di informazioni l’azione per me più affascinante in assoluto. Lennon è universale. La cosa difficile è suonare la sua ‘voce’.

Rispetto al tuo stile o genere cosa affermi?

Il mio stile non è altro che la voglia di potermi mettere continuamente in gioco e a confronto con l’altro, con la realtà circostante. Non mi limito a suonare sempre le stesse cose, mi piace cercare nuovi linguaggi. Nel mio ultimo disco ho fatto questo.14997067_1633961953295922_629894915_n

Come si chiama il disco? Parlaci di questo lavoro.

Beh, anzitutto c’è da dire che il disco in arrivo è un viaggio, un lavoro che ho costruito strada facendo. Alcune cose le ho registrate dove mi trovavo, molte in zone di montagna, da qui il nome ‘Suite of the nine mountains’, alcune in macchina, altre in spiaggia. Così ho potuto afferrare le mie sensazioni. È un diario di viaggio, in un momento particolare della mia vita, è una sorta di autobiografia, che si riflette col presente. Il disco è uscito per MusicArte.

Quali strumenti hai utilizzato?

Fondamentalmente la chitarra, ma anche qui era una ricerca, una sperimentazione di effetti e colori diversi. Non ho un genere, non mi piace definire, ingabbiare, mi piace suonare ciò che sento. Il mio percorso parte dal blues, dal rock, ho un bagaglio vario, e dunque oggi suono tutte queste cose, che ho ascoltato dimenticato e ripreso nel tempo.

Quindi si può dire che ami anche l’improvvisazione?

Amo l’improvvisazione proprio perché è sempre diversa.

Dove hai trovato l’intuizione che ti ha condotto al titolo del disco? Qual è il tuo approccio rispetto ad esso e al passato?

‘Suite of the nine mountains’ sono le stanze delle nove montagne, le stesse sonorità che si ripercorrono in tutti i nove brani. Un disco per cui posso affermare che la sfida continua. Ho fatto delle cose in passato che mi hanno dato tanto ma ora penso ai nuovi progetti. Ho sempre cercato l’approccio con altre persone, lo studio di altre persone, l’apertura. Non mi sono mai fossilizzato. La cosa bella è suonare con persone diverse, non ho mai limitato nessuno, ho sempre detto suona quello che senti, in una massima libertà.

Sei un po’ uno spirito libero?

Si, le etichette non mi piacciono. Voglio che la mia musica arrivi dentro l’anima delle persone.

Rispetto al Nord, qui nella tua città la musica com’è vissuta? Ci sono più difficoltà per emergere? 

Non c’è molta differenza tra quello che siamo noi qui e i musicisti che vivono al nord, c’è un pregiudizio. Sicuramente mancano gli spazi e il confronto sano. Mentre fuori non si limitano al confronto ma è un modo di crescere, qui c’è chiusura mentale ma ci sono però artisti fantastici.

Cosa senti di dire ai giovani che intendono percorrere questa strada per il loro futuro?

Il mio invito è fare. Essere coinvolgenti e trovare il confronto positivo. Chiedersi ogni giorno cosa mi rende felice? E agire.

Hai un motto?

Posso suonare quello che voglio perché lo sento.

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Valeria D'Agostino è giornalista pubblicista, curiosa del bello, amante della natura e della poesia. Ha contribuito a realizzare il Tip Teatro di Lamezia Terme, già ufficio stampa di Scenari Visibili, blogger sin dagli esordi di Manifest Blog. Ha lavorato per Il Lametino, attualmente corrispondente esterna della Gazzetta del Sud. Nell'ambito della scrittura giornalistica ha prediletto un interesse particolare per le tematiche sociali, quali in primis la sanità e l'ambiente, culturali, e artistiche. Si divide fra Lamezia Terme e Longobardi, costa tirrenica cosentina dove si occupa di turismo e agricoltura biologica. "Un buon modo per dare concretezza al concetto di fuga".

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