Gli studi accademici sul postcolonialismo hanno focalizzato l’attenzione soprattutto su temi quali etnicità, migrazione, differenza, marginalità, adottando un metodo di tipo etnografico nello studio di tali fenomeni. Nell’analisi della migrazione transnazionale si è pervenuti a una serie di constatazioni di carattere generale, in altre parole nell’era dei «flussi culturali globali» si è verificato quello che lo studioso Arjun Appadurai definisce come processo di deterritorializzazione. Egli nel libro Modernità in polvere scrive:
La deterritorializzazione è in generale una delle forza centrali del mondo moderno perché sposta masse di lavoratori nei settori e negli spazi delle classi inferiori di società relativamente ricche, mentre a volte crea sentimenti esagerati o intensificati di critica o attaccamento emotivo verso la politica dello stato di provenienza.[1]
Secondo Appadurai la migrazione sempre più estesa dalla periferia al centro produce, di contro, un forte attaccamento verso il proprio paese d’origine.
La volontà di riscoprire le proprie radici è infatti un tema centrale nel lavoro di molti artisti contemporanei. Erranti, cosmopoliti, appartenenti spesso all’élite intellettuale del proprio paese, residenti nelle grandi città metropolitane, controversi e critici verso le politiche di dominio, gli artisti diventano “etnografi”, cioè osservatori partecipanti delle idiosincrasie tipiche della società globale. [2] Si può sostenere infatti che il lavoro di molti artisti della diaspora si configuri quasi sempre come una spasmodica ricerca d’identità all’interno di una società basata sulla «frammentazione»; tale ricerca di sé assume in molti casi una valenza collettiva, diventa metafora di un viaggio nella storia di un paese, contribuisce quindi ad alimentare le riflessioni critiche sulla contrapposizione tra centralità e marginalità.
Il contesto globale nasce dopo una serie di avvenimenti di enorme rilevanza: la fine dell’apartheid, le lotte per l’indipendenza nazionale, la crescita del mercato economico su scala mondiale. Il 1989, che è la data del crollo del muro di Berlino, sancisce la fine dei regimi comunisti in Europa. In quell’anno viene allestita a Parigi la mostra Magiciens de la terre[3], curata da Jean- Hubert Martin, all’interno di due sedi prestigiose: il Centre Pompidou e il Parc de la Villette (fig.1). La mostra, organizzata nell’ambito delle celebrazioni per il bicentenario della Rivoluzione francese, diede avvio a una serie di riflessioni critiche. La rassegna riuniva le opere di centouno artisti, cinquanta appartenenti al mondo occidentale e altrettanti provenienti dalle ex colonie. Lo scopo era quello di creare la mappatura di una nuova geografia artistica, privilegiando le espressioni e le pratiche vicine a un’idea sciamanica dell’arte, legate dunque a valori di spiritualità e ritualità tipiche delle società indigene.
Contemporaneamente alla mostra Magiciens de la Terre, l’artista e curatore pakistano Rashed Araeen inaugurò The Other Story. Afro-Asian Artists in Post-War Britain[4] alla Hayward Gallery di Londra, una collettiva che rappresentò un’aspra critica al sistema dell’arte, in quanto pose l’accento sull’eccessiva “etnicizzazione” degli artisti non occidentali. In quest’ottica deve essere considerata, infatti, la posizione militante di Rasheed Araeen[5] che fu maggiormente attivo nel dibattito sulla marginalizzazione degli artisti di colore all’interno del sistema dell’arte. Araeen, attraverso una serie di pubblicazioni sulla rivista da lui fondata Third Text[6], ha sempre ribadito il proprio disprezzo nei confronti di quelle persone che intendevano classificare con il termine “primitivo” tutti gli artisti non occidentali. Le sue opere vogliono essere una critica feroce verso quegli stereotipi che hanno portato alla definizione del “diverso”, dell’Altro, dell’emarginato; emblematica in tal senso risulta essere una delle sue prime opere dal titolo Paki bastard: Portrait of the Artist as a Black person (1977). In questa performance che trae spunto da un fatto realmente accaduto, ovvero la violenza subita da un ragazzo pakistano da parte di alcuni poliziotti inglesi, Araeen presenta una serie di diapositive che offrono un modello di critica sociale e pongono le basi per un’arte della «resistenza» (fig.2).
La critica di Araeen è rivolta principalmente al desiderio di dominio attuato dall’Occidente nei confronti delle altre culture. Nell’esposizione intitolata When The Innocent Begins to Walk The Earth (Showroom Gallery di Londra, 1988) l’artista presenta due installazioni che intendono condannare l’imperialismo occidentale. La prima istallazione, dal titolo Artic Circle, presenta un cerchio di bottiglie che rimanda all’abuso di alcolici introdotto dai coloni bianchi in alcune comunità indigene; la seconda invece, dal titolo White Line Through Africa, è costituita da una linea retta formata da decine di ossa che rappresentano le molte vittime africane della fame, della malattia e della guerra. La posizione di Araeen si colloca sullo sfondo della riflessione sul fallimento della politica multiculturale britannica. In questo processo d’internazionalizzazione, artisti come Yinka Shonibare e Zineb Sedira si fanno portavoce di un’arte che intende esplorare le convenzioni retoriche legate alla costruzione dell’etnicità e della differenza. Yinka Shonibare è un artista nato a Londra da una famiglia di origini nigeriane che vive la propria fanciullezza in Nigeria per poi tornare a Londra durante l’adolescenza. Nei suoi lavori egli utilizza spesso i cosiddetti african prints (o wax-prints), ovvero quei tessuti utilizzati in tutta l’Africa postcoloniale ma esportati anche nelle metropoli occidentali. Nell’installazione Jardin d’amour, realizzata nel 2007 presso il Museé de quai Branly, Shonibare utilizza il tessuto per scardinare l’idea postcoloniale delle differenze culturali tra i popoli. Gli indumenti rappresentano degli involucri che sono utilizzati per esprimere la propria classe sociale, la propria appartenenza etnica e la propria sessualità, in altre parole definiscono l’identità di un individuo. Nella sua installazione, Shonibare presenta tre coppie di amanti che adottano le stesse pose e movenze dei personaggi raffiguranti in una serie di quadri realizzati dal pittore francese Jean-Honoré Fragonard (fig.3).
L’artista utilizza però dei manichini senza testa inseriti all’interno di giardini che rimandano simbolicamente al desiderio occidentale d’impossessarsi dell’esotico e di collezionarlo. In questo modo l’artista non fa altro che giocare sul concetto di ibridismo: nei suoi manichini senza testa, nei suoi abiti vittoriani cuciti con i wax-print, nell’uso del kitch che intende suscitare scandalo, egli ribalta i consueti canoni visuali ed elabora un nuovo codice figurativo. Scrive a tal proposito la studiosa Valentina Lusini:
Di fronte alle richieste del sistema dell’arte occidentale, che chiede all’artista del Sud del mondo di prendere la parola come “autentico”, la risposta di Shonibare è quella di produrre un’arte del limite e dello scandalo, fondata su una visione internazionalista che sfugge alla trappola della determinazione territoriale, scherza con umorismo e delicatezza sulla ri-definizione dei ruoli e mette l’accento sui disequilibri degli scambi culturali ed economici a livello globale.[7]
L’utilizzo di simboli religiosi diventa invece una delle molteplici chiavi di lettura per interpretare il tema dell’alterità da parte di Zineb Sedira, artista nata in Francia da genitori algerini. Ella indaga in maniera significativa la propria condizione di donna e madre islamica attraverso l’uso del corpo e del velo. Il tema del velo è ormai da molto tempo al centro di un dibattito sociale e politico, dal momento che alimenta il confronto ideologico tra Occidente e Oriente. Per comprendere la ricerca di Zineb Sedira sono molto interessanti le due installazioni dal titolo Self Portraits or the Trinity e Self Portraits or the Virgin Mary (2000), in cui l’artista utilizza tre fotografie in cui appare una donna che indossa il chador (fig.4 ).
In realtà la donna è l’artista stessa che viene presentata come una Madonna avvolta nella luce. Sedira in questo caso utilizza il velo islamico all’interno di codici rappresentativi di matrice cristiana. Nell’utopica speranza di creare una comune visione del “sacro”, ella tenta di stabilire un punto di convergenza tra due mondi contrapposti.
[1] Arjun Appadurai, Modernità in polvere (Trad. it. a cura di P. Vereni), Meltemi, Roma, 2001, p. 58.
[2] Hal Foster, The artist as etnographer in The Return of the Real: The Avant-Garde at the End of the Century, MIT Press, Cambridge, 1196, pp.171-204
[3] Si veda Roberto Pinto, Magiciens de la Terre, in Nuove geografie artistiche: le mostre al tempo della globalizzazione, Postmedia Books, Milano 2012, pp. 63-82.
[4] Si veda Eddie Chambers, Black Artists in British Art: A History from 1950 to the Present, I.B. Tauris, London 2014, pp.105-113.
[5] Per maggiori informazioni sulla figura di Rasheed Araeen si rimanda al testo di Gen Doy, Black Visula Culture: Modernity and Post- Modernity, I.B. Tauris, London 2000.
[6] Rivista fondata nel 1989 da Rashed Araeen, dal titolo Third Text: Critical Perspectives on Contemporary Art and Culture. La rivista raccoglie numerosi contributi critici sul tema della globalizzazione dell’arte, ponendo maggiore risalto al ruolo degli artisti di origine africana, asiatica e latinoamericana. Si veda il sito:http://www.thirdtext.org
[7] Valentina Lusini, Destinazione Mondo. Forme e politiche dell’alterità nell’arte contemporanea, Ombre Corte, Verona 2013, p. 65.
Amo l'arte e la musica. Sono perennemente in bilico tra sogno e realtà. Sto ancora cercando il mio posto nel mondo.