Benché la Calabria sia un lembo di terra dalla modesta estensione, sorprendente è la sua capacità di celare molti dei suoi aspetti. Sant’Agata d’Esaro è uno dei tanti paesini che, a sentirli pronunciare, non destano alcuna familiarità. Essa è una tra le più isolate ed interne contrade dell’appennino calabrese ed è posta su una rupe a strapiombo sul fiume Esaro.
La provinciale che collega l’autostrada a questi sperduti comuni attraversa campi e casolari riscaldati dalle prime luci dell’alba. Oggi un bel sole e un cielo terso promettono di assistere il passo del viaggiatore. Avevamo già tentato di scalare la Montea due settimane prima, ma la pioggia e la nebbia ci hanno fatto desistere.
Non si troveranno in queste parole descrizioni di bei paesaggi. Sia chiaro, dalla Montea si gode di un bellissimo panorama, per carità. Eppure esso è passato del tutto in secondo piano per chi scrive.
Nelle varie declinazioni che può assumere la montagna, elemento mutevole, la Montea è quanto di più vicino ci sia ad una di quelle scalate giudicate prive di senso. Basti a ciò dire che il percorso non è altro che una continua e ripida salita fatta di frequenti arrampicate intervallate da strapiombi da superare camminando su un filo di roccia. La fatica provata è costante e le gambe sono sempre pesanti, non esiste alcuna ombra per ripararsi dal sole cocente di Giugno e lo spazio è sempre ristretto.
A ben pensarci si potrebbe descrivere la Montea quale locus horribilis. Alcuni passaggi particolarmente complessi presso la vetta hanno fatto rinunciare alla scalata finale alcuni di noi e la sensazione provata nei tratti conclusivi è stata quella di chiedersi: “ma che senso ha?”. Ho portato questa domanda con me per tutto il viaggio di rientro e raccontando dell’esperienza ho sconsigliato di affrontare questo percorso, tanto che erano maggiori le difficoltà che i benefici.
Mentre rientravo a casa mi son detto che non avrei mai più voluto rifare quel percorso. Ed ecco che, poggiato lo zaino, torno alla vita quotidiana. Alla televisione passano notizie sull’attualità. Ascolto e un senso di vacuità mi assale man mano che passano in rassegna i vari accadimenti della giornata.
Abbiamo costruito un mondo di agi e sicurezze. Ci è stato promesso che fosse necessario dimenticare la vita dei nostri avi in nome di un consumismo che ci permette di acquistare qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Attorno a questa avidità esseri dalle strane sembianze succhiano e fagocitano quello che possono senza alcun limite.
Riteniamo di vivere in un mondo aperto a tutti ed accessibile, desideriamo visitare paesi esotici e lontani mentre abbiamo dimenticato il nome delle contrade e dei paesi a noi più vicini. Dalle nostre bolle perfette, però, non traspare nulla e nemmeno vi accede alcunché del mondo reale.
La retorica della globalizzazione e dell’uguaglianza asettica ha rimosso le nostre radici descrivendo come barbara la vita di chi ci ha preceduto. Abbiamo dimenticato la fatica, il sudore e il senso e la dignità delle conquiste personali. Ci spaventiamo alla prima difficoltà, siamo incapaci di pensare ad un’alternativa anche per i problemi quotidiani. Perchè, allora, stupirsi dell’incapacità di affrontare problemi sociali ben più strutturati? Come si può pretendere di trovare una soluzione alle sfide dell’attualità quando la nostra stessa forma mentis è tarata al disinteresse verso ciò che circonda?
Nel mentre tutto ciò scorre nella mia mente, ripenso alla Montea. Ho avanti a me quel cammino difficile, insensato, faticoso, distruttivo. Ripercorro ogni momento della giornata, ogni passo, ogni sasso superato, ogni goccia di sudore, ogni sorso d’acqua, ed un solo pensiero rimane alla fine di tutto: darei ogni cosa per rifare quello stesso percorso che porta alla vetta, adesso.
Scriveva Edgar Lee Master nel suo “Antologia di Spoon River”
Filavo, tessevo, curavo la casa, vegliavo i malati,
coltivavo il giardino e, la festa,
andavo a spasso per i campi dove cantano le allodole,
e lungo lo Spoon raccogliendo tante conchiglie,
e tanti fiori e tante erbe medicinali –
gridando alle colline boscose, cantando alle verdi vallate.
A novantasei anni avevo vissuto abbastanza, ecco tutto,
e passai a un dolce riposo.
Cos’è questa storia di dolori e stanchezza,
e ira, scontento e speranze fallite?
Figli e figlie degeneri,
la Vita è troppo forte per voi –
ci vuole vita per amare la Vita.
Sono nato dall'increspatura dell'onda. Non ho deciso io il mio destino, ma il mare che tutto sospinge e muove. - Tu navigherai - mi disse un giorno. E così sono alla ricerca di Itaca. Ho un cuore mediterraneo, crocevia di emozioni e incoerenze, come i molti popoli di questo mare. Ma come posso dire con certezza chi sono?