C’è stato un tempo in cui era possibile vivermi solo di “piuttosto che”, quando, come tutti nel fiore della vita, mi era bello, meraviglioso, l’oppormi alle malevole strade della occasione. In quei giorni il mio sonno era ristorato dall’aver morsicato frugalmente un pezzo di pane all’olio, due olive e un po’ di formaggio. Andavo a letto presto, il tramonto, in quelle estati, era così bello da far male e molte albe mi scorrevano lentamente, da un angolo di mondo, tra una preghiera di ringraziamento e un disco di Neil Young durante i primi mattini piovosi di settembre. Mia madre metteva su il caffè mentre cantava vecchie canzoni degli anni Sessanta, mio padre si faceva la barba, e i profumi della moka dalla cucina e della schiuma dal bagno erano una perfetta armonia olfattiva. Con mia sorella preparavamo i rispettivi zaini di scuola e, tra giochi, litigi e le rispettive compagnie di amici, chiedevamo al cielo di diventare già grandi. Fummo accontentati. E il tempo del “piuttosto che” continuava ancora per molto. Non ci accorgevamo di quanto la vita assumesse contorni più nitidi e di come, proprio per la maggiore nitidezza, i suoi colori diventassero meno saturi. L’aria che respiravo cominciava a farsi rarefatta. In fin dei conti, però, molte cose non cambiavano. Solo che a mettere su il caffè, adesso, era mio padre, mentre mia madre, in pochi minuti, si truccava delicatamente prima di andare a lavorare. Quel vivere di “piuttosto che” voleva dire essere nel presente con i piedi, con le mani, con un corpo intero che cambiava giorno dopo giorno e, allo stesso tempo, significava rimanere proiettati nel domani, con la mente. Come nell’attesa di un tuffo, a bordo di un trampolino che sembrava potesse molleggiare per sempre. Dopotutto, vivere di “piuttosto che” voleva dire avere poche idee, ma chiare, sempre giuste. Era, per esempio, l’andare in campagna di domenica perché si voleva andare in campagna la domenica.
Così, in una carambola di situazioni e una manciata di sogni, finì il tempo del “piuttosto che”, non prima di avere posto quelle basi solide con cui ingenuamente ipotechiamo il futuro. Con la violenza dei temporali di novembre, arrivò il tempo del “nonostante”. E ancora oggi fatico a pensare alla sua prevedibilità in relazione al nostro voler tenere gli ombrelli chiusi. Di quel tempo scrissi abbastanza, scrissi troppo, e le parole di quei giorni erano scritte con il sangue. Solo in un momento particolare trovai la forza di anestetizzarle, e la medicina si chiamava disciplina, costanza, culo-schiacciato-sulla-sedia. Le dolci parole da cui prendevano forma, evocazione, i ritratti bucolici di una specie di romanzo, non erano che un decotto per la bile.
Il tempo del “nonostante” era terribile, lo è ancora. È il peggiore, il più subdolo e meschino affondo che il cancro potesse farmi. Dopo avermi tolto mia madre. Era una certa antropologia della famiglia, tutta nostrana, a salvarci, più che la morfina. Così pensavo, almeno, nelle notti insonni. C’erano nuovi sogni, voglio dire, non molto diversi da quelli dell’epoca precedente, ma di un tipo nuovo, di un sapore diverso. E riuscivamo a farne molti ad occhi aperti, con mia madre. Un pomeriggio siamo riusciti ad andare al mare tutti e quattro. Dall’ultima volta era passato quasi un lustro. Da allora, in quel preciso punto della riva, torno a bagnarmi come in preghiera, con poche ma solide certezze. Il tempo del “nonostante”, in effetti, era per certi versi più chiaro di quello precedente. Quando vivi alla giornata non puoi permetterti titubanze. Non ti si avvicinano nemmeno. E oggi, quando questo tempo si sarebbe già dovuto sgretolare come fanghiglia di torrenti, faccio ancora una fatica immane. Queste turbe del cuore, questi conglomerati isterici della mente, e le debolezze, le compassioni, il cieco ammutolire del giorno dopo, non sono fatti di fango. Sono schegge di granito, frammenti sparsi, materiale di risulta di un acciottolato, una ghiaia che rischia di impiegare generazioni per sgretolarsi. Sono cose dure, perché creatisi con strilli e lacrime, con urla disumane. Sono cose difficili, perché fatte con il sudore freddo, con ossigeni residuali. A chi, insomma, è stato dato il potere di ritrovare una felicità perduta dopo avere rivestito il cadavere della propria madre? Sono le pietre d’inciampo. Sono le scorie del tempo del “nonostante”. A volte ne siamo completamente cosparsi. Ma poiché nessuno può vedercele addosso, possiamo prenderci, ancora per un poco, lo stupido lusso di apparire puliti. Di far finta di riuscire, ancora, ad andare a letto presto.
Vive a Lamezia Terme, legge e scrive dove gli capita. A tempo perso si è laureato in Beni Culturali e in Scienze Storiche, a tempo perso gestisce il blog Manifest e a tempo perso è responsabile della Biblioteca Galleggiante dello Spettacolo del TIP Teatro. Di fatto, non ha mai tempo. Ha esordito nel 2023 con il romanzo "Al di là delle dune" (A&B)