“Il cielo comincia dal basso”, un caso letterario in una non recensione

Nel tempo in cui i pensieri quotidiani ruotano tra il successo facile, le amicizie fatte di affari, carrieristi e arriviste, in cui lo sguardo si alza poco al cielo per contemplare il creato, e si alza per riempire lo sguardo di onnipotenza, per vestire di arroganza il proprio io capita di leggere un libro, mentre sei seduta in una fila infinita dal nuovo medico curante (già, perché oggi pure i medici curanti sono onnipotenti) e di restare abbagliata, scossa al punto giusto, ma anche accarezzata dolcemente.
Leggo “Il cielo comincia dal basso” di Sonia Serazzi, edito da Rubbettino. L’odore della carta mi piace tanto, il romanzo sottoforma di diario attira dal primo all’ultimo rigo, tanto che nelle lunghe ore di attesa, dal medico, (5 in tutto sono le ore), decido spassionatamente di finire il libro dell’autrice nata a Napoli, trasferita a Perugia dove ha studiato filosofia, e ritornata nel piccolo paesino calabrese che nel suo immaginario fatto di cose minute e dense di cuore e spirito, universale per il lettore, resta senza alcun none.
Il paese de “Il cielo comincia dal basso” è un meraviglioso tumulto del cuore, che lascia spazio ai sentimenti contrastanti e veri dell’anima, in cui la tristezza, la malinconia sono assai dolci, e la gioia è racchiusa nei dettagli.
Il cielo di Rosa Sirace, in cui si intravedono forse tratti di continuità e altri in evoluzione con la protagonista che 14 anni fa riempiva le pagine del primo romanzo della Serazzi, “Non c’è niente a Simbati Crichi”, è un soffio di vento leggero in grado di cogliere il cielo che parte dalla Terra, che innalza la Terra, quella su cui si poggia la sua piccola dimora, formata dal Visconte di Verolea, dalla Contessa di Babbumannu, da Antonia Cristallo, e dalla Palombella, da Leddidy, e altri ancora, è un cielo che parte dal basso, perché solo dal basso nascono le cose più autentiche, i fiori, le rose, la vita di paese in cui scorrono a volte leggere, altre volte veloci, le ore di questa vita, con le sue arretratezze, le sue contraddizioni, la sua eleganza con la sua nobilità d’animo. La terra zappata dai contadini, di uomini cresciuti dietro un leoncino di terracotta, dalla chioma leggera. La terra dei fichi, le cui foglie scandiscono stagioni, e lei Rosa Sirace la quarantenne che ritorna alla sua terra, è felice così, con poco o forse con tutto, perché sente di appartenere a quel posto, che ogni giorno le ha regalato saggezza.
La prima pagina è come l’ultima, colma di amore. Ed è sempre lei, Antonia Cristallo, la protagonista della polaroid ingiallita che, sulla panca della vecchia sala d’attesa su cui mi trovo seduta, mi riporta alle immagini vintage della mia campagna, a decenni passati, di me piccolina, delle mie mani ancorate a quelle piene di fosse e di ossa storte della mano di mia nonna lungo Maurizio, (strano eh? Una volta pure le terre coltivate avevano un nome, ed era pure maschile).
Insomma, mentre penso all’inizio e alla fine di questo prezioso regalo che ho fra le mani, mentre osservo lo sguardo della Rom obesa dagli occhi azzurrissimi, quasi ghiaccio, e un anziano vestito colorato, che racconta a un altro di avere 92 anni e quello gli risponde : davvero? Ma stai scherzando? Ne dimostri almeno 20 in meno, mentre scopro che anche loro mi guardano perché sono l’unica in quella stanza a non sbuffare dell’attesa, straniti dalla mia attenta lettura, penso al qui ed ora del mio teatro personale, al mio paesaggio familiare dell’anima, all’ altalena di ciliegio davanti il davanzale di Gizzeria dove una volta in cerchio le donne della mia vita si riunivano a fare politica a proposito della tipologia di pomodori da piantare in quei solchi scozzesi che per me era il posto segreto.

Io sento di ringraziare chi ha destato il mio umore, chi l’ha distratto in mille modi, in queste ore, che poi il giorno dopo ci pensavo, e il giorno dopo ci pensavo pure.

E mi sono ricordata della presenza assenza della mia bisnonna, posizionata ancora su quel lettino in cucina, dalla coperta che a Giugno si tingeva d’azzurro, ed io li, pronta ad ascoltare dei suoi lunghi viaggi, a piedi o su un asino, della forza di quelle donne che, analogamente ai migranti di oggi dalla collane colorate, portavano bimbi dietro la schiena e raccoglievano le olive, e poi con le olive ci facevano l’olio, e con quell’olio battezzavano cene fatte di passamano di grano infornati collettivamente e dispensato a tavola.
Io sento di dire grazie a Rosa Sirace, che intanto mi ha fatto sentire meno sola, perché in tanti momenti mi ci sento sola, e invece la bellezza salva, e salva sempre. Che pure la morte ha un senso bello, quando narra le pagine più forti, quelle della massima esperienza da trasmettere, che riempiono le stanze e i lettini vuoti.

Io sento di dire grazie a Sonia Serazzi, per la dolcezza, per la scrittura originale e autentica, per avermi fatto pensare meno all’io e più al noi. Lontana dal voler imporre moralismi, dal voler spiegare o fornire giustificazioni, ha dimostrato a differenza di numerosi autori contemporanei che la letteratura non ha bisogno di artificio, non servono fatti eclatanti, e che si può parlare di Calabria senza per forza parlare di clan, o di pistole, che la letteratura come i più grandi narratori calabresi ci insegnano, Alvaro e Strati, citati proprio ieri da Goffredo Fofi sull’Internazionale, riesce a tradurre il passato al presente, riesce prendere del passato l’utile, l’essenziale.
Spirituale, religioso rifugio di anime umane, in cui meditata la sua scrittura giunge a scaldare una contingenza universale, in cui i più giovani, spaesati, possono trovare pace e benessere quando pure il dolore viene identificato, accettato, vissuto con serietà , e le gioie sono una metamorfosi affascinante fra ciò che di straordinario possiamo trovare solo nella normalità.

Una volta entrata, il medico dice che posso provare col cortisone, che la mia tosse secca mi ha stancata un po’. Intanto, esco da una porta laterale, perché per oggi il medico nuovo non accoglie più malati. Io corro a casa, mentre fuori mi accorgo che è festa, corro, che mi scappa la pipì. Comunque forse cambiò medico, penso, sicura che la prossima volta non ci sarà un altro libro in grado di ipnotizzarmi per oltre 5 ore.
Domenica sono stata alla festa patronale di Gizzeria, San Giovanni, e dopo più di 10 anni mia mamma ed io, insieme a mia nonna e al resto della mia famiglia, guardiamo la processione dal muretto del Monumento. Intanto oggi, la tosse è quasi scomparsa.

Valeria D'Agostino è giornalista pubblicista, curiosa del bello, amante della natura e della poesia. Ha contribuito a realizzare il Tip Teatro di Lamezia Terme, già ufficio stampa di Scenari Visibili, blogger sin dagli esordi di Manifest Blog. Ha lavorato per Il Lametino, attualmente corrispondente esterna della Gazzetta del Sud. Nell'ambito della scrittura giornalistica ha prediletto un interesse particolare per le tematiche sociali, quali in primis la sanità e l'ambiente, culturali, e artistiche. Si divide fra Lamezia Terme e Longobardi, costa tirrenica cosentina dove si occupa di turismo e agricoltura biologica. "Un buon modo per dare concretezza al concetto di fuga".

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