Avete presente quando vedete un libro per la prima volta e dal numero delle pagine vi vien subito molto spontaneo pensare “Ah, ma questo lo leggo in un giorno”! È andata esattamente così, questa estate, quando mi son trovata dinanzi agli occhi “Mezzogiorno padano” di Sandro Abruzzese, pubblicato all’interno della collana ‘società narrata’ da ‘manifestolibri’.
Eppure, questo libricino, l’ho custodito in borsa per un’intera estate. Sono riuscita a concluderlo dopo mesi, sentendo più volte l’esigenza di riprenderlo, di ri-aprirlo a caso, di rivedere alcune pagine, alcuni passaggi… Perché i dettagli di certe storie e di certi personaggi, del libro in questione, hanno troppo spesso suscitato il mio interesse…quasi a voler continuare io la storia, con la mia fantasia, il mio smarrimento, la mia consapevolezza, aggiungendo altre caratteristiche. Perché “Mezzogiorno padano” di Abruzzese è un romanzo corale , anzi direi un insieme di micro romanzi, che porta sempre a più profonde e diverse riflessioni, riguardo il mondo in cui viviamo, riguardo il sentimento individuale e collettivo del paese Italia, e come tale merita un approfondimento. Talora la sensazione è quella di trovarsi di fronte a tanti frammenti, diversi ma analoghi nei sentimenti, nel coraggio. Un puzzle difficile, dunque da costruire, da decifrare, e per questo affascinante.
Andro Abruzzese è docente di letteratura a Ferrara, blogger, e fondatore del progetto ‘racconti viandanti’, collabora per la rivista online, dedicata al viaggio e al reportage, ‘Erodoto 108’. Un lavoro, quello dell’autore originario dell’Irpinia, che vede la prefazione, attenta e fluida, sotto forma di diario di bordo in cui spesso compaiono ‘doppi’, dell’antropologo Vito Teti, l’uomo che più di ogni altro riesce ad assorbire il concetto del ‘viaggio da fermo’. La copertina è invece a cura di Tania Schifano. Semplice, limpida, vera, a tratti cruda, inafferrabile, lenta e graduale nella sua brevità. La scrittura di Sandro Abruzzese, studioso, appassionato di erranza, sradicamento, dunque di luoghi, tematiche che ben si collegano alla questione meridionale attrae sin dalle prime righe, inchioda a più interrogativi, mai banali, mai circoscritti. Un atteggiamento che, lungi dall’essere autoreferenziale, mette in evidenza più prospettive cangianti: uno sguardo che ama perdersi e poi ritrovarsi, ama capovolgere le regioni, proprio come accade nel disegno minimale in copertina, cogliendo aspetti attuali, sociali, che spaziano dai rapporti familiari, politici, geografici e quindi legati a fattori di emigrazione interna ed esterna, ma anche fatti storici, antropologici, civili, scavando contiguità a sistemi mafiosi, mentalità ataviche, analogie, uguaglianze, e coscienze ancora paurose del cambiamento.
Un “Mezzogiorno padano” che è l’Italia nostra rovesciata e che indubbiamente predispone il lettore a sottoporsi allo specchio ed al tempo. Quasi un invito ad indossare uno sguardo nuovo, inaspettato. “Muore lentamente chi non capovolge il tavolo” diceva qualcuno su note poetiche un tempo. Ed ecco che il Meridione ed il Settentrione, all’improvviso (?) si toccano, si incrociano, bisticciano, si danno la mano, poi si voltano e ancora scompaiono, come due vecchi o nuovi amici che restano con l’inquietudine di una conoscenza rimasta sospesa. Perché ciascuna delle micro storie del “Mezzogiorno padano” di Abruzzese accenna sempre circa un curioso spaesamento, tale che ad un certo punto, dopo una raffinata descrizione e apertura iniziale il lettore si ritrova presto nel finale, ed è esattamente guardando alla centralità mancante che avverte il senso vero, identitario, letterario, del romanzo. Quel senso che porta il lettore ad avvertire un totale sradicamento. Una contingenza, che ben si plasma sulle ‘fragilità’ intrinseche ai personaggi, metafore della Nazione, e sul valore della ‘resistenza’ tratto caratteristico del viaggio.
[quote]La piccola Marta ha bisogno di un intervento in grado di restituirle l’udito. Marianna Tamburrino va da Foggia a Milano per poter vivere fino in fondo la sua diversità. Il napoletano Antonio De Gennaro diventa chirurgo di fama a Domodossola. Il prof. Fittipaldi, a sessant’anni passati, si trasferisce dalla Basilicata all’Emilia per vivere accanto alla figlia. Arturo Menna lotta per difendere la Terra dei Fuochi. Adele Sorrentino non riesce a odiare l’uomo che l’abbandonò a pochi mesi dall’altare. Sono solo alcuni dei protagonisti incontrati in questo libro corale, che per la forma ricorda una Spoon river in narrativa.[/quote]
Tocca e fa tremendamente male il libro di Abruzzese, ma ogni sofferenza restituisce quasi sempre verità, amore, bellezza. In ogni storia si averte un dolore, una nostalgia, ma non si capisce riguardo a chi, riguardo a cosa, quello che appare chiaro in più voci è invece il sentimento di un ‘naufrago’, il ‘non avere’ Patria alcuna. E allora la patria cosa è? Un ritorno a ‘casa’? Qualcosa da afferrare altrove? Qualcosa da dover smettere? Mi pare un figlio, il libro di Abruzzese che, come il ‘filo d’erba’ tremante reso esplicito da Rocco Scotellaro, l’io narrante – alter ego dell’autore, a volte vorrebbe correre indietro, altre volte lontano e sempre in avanti, lasciandosi tutto alle spalle, con le ombre comprese, e sperimentare nuovi percorsi. Un figlio che di ritorno a casa, trovando i vecchi poster attaccati in camera, si disconosce continuamente seppure l’ordine delle cose è rimasto invariato, portando in sé una buona dose di vulnerabilità. Un figlio che non vuole decidersi circa l’abbandono al padre, laddove per padre s’intende tutta una serie di metafore. Ed ecco che viene in ballo il senso di fallimento umano di tutti i figli e di tutti i padri del nostro tempo presente. Ma le storie dei personaggi camminano, con una lentezza che ha il sapore della dignità, camminano e non si fermano, con una lentezza che nutre ancora l’idea del ‘riscatto’. Uno stile letterario, quello di Abruzzese, che rimanda a qualche cosa di altamente poetico e insieme di denuncia che non ha nulla a che fare con le storie sul Sud raccontate negli ultimi anni, fatte da luoghi comuni o comunque volte a denigrare, o a peggiorare le cose con un pessimismo fine a se stesso, inutili visioni estremistiche del Sud assai diverso dal Nord e dunque tendente ancora a dividere. Non c’è alcun tipo di vittimismo nel Mezzogiorno padano di Abruzzese. Sorprende l’accettazione e non la giustificazione, rispetto a ciò che la contingenza ci sbatte in faccia, un’accettazione che però non vuole dire ‘rassegnazione’ ma punto di partenza palpabile, responsabile, consolidato, sempre pronto a nuovi viaggi di scoperta, di vita, di sangue e carne.
Valeria D'Agostino è giornalista pubblicista, curiosa del bello, amante della natura e della poesia. Ha contribuito a realizzare il Tip Teatro di Lamezia Terme, già ufficio stampa di Scenari Visibili, blogger sin dagli esordi di Manifest Blog. Ha lavorato per Il Lametino, attualmente corrispondente esterna della Gazzetta del Sud. Nell'ambito della scrittura giornalistica ha prediletto un interesse particolare per le tematiche sociali, quali in primis la sanità e l'ambiente, culturali, e artistiche. Si divide fra Lamezia Terme e Longobardi, costa tirrenica cosentina dove si occupa di turismo e agricoltura biologica. "Un buon modo per dare concretezza al concetto di fuga".