Per ricordare Sharo Gambino, a dieci anni dalla sua morte, mi piacerebbe partire da un “fermo immagine”: la soglia della farmacia Jellamo a Serra San Bruno, tra il panificio Malerba – uno dei luoghi simbolo della dolciaria di tradizione del paese – e il ponte sull’Ancinale.
Sharo Gambino è lì, appoggiato allo stipite della porta alla mercantile, osserva lo struscio sul corso principale, scambia qualche parola con l’amico farmacista e pittore, saluta qualcuno, rimanendo, però, sempre concentrato in se stesso, fondamentalmente silenzioso. Lo stesso silenzio interiore – un silenzio, è facile ipotizzare, ricco e fecondo di voci di dentro, di pensieri, di storie – non era difficile coglierlo nel vedere Gambino affacciato alla finestra del suo studio al quarto piano: lo sguardo fisso sulle montagne di fronte che delimitavano l’orizzonte, ora intento a decifrare le sfumature di verde che si stendevano davanti, ora impegnato a penetrare la nebbia intensa o a sprofondarsi dentro i suoi vapori, ora disteso nella contemplazione del bianco abbacinante della neve invernale.
Si immagina spesso che gli scrittori abbiano un rapporto speciale con le parole, con la loro articolazione facile e veloce, con i segreti misteriosi che si incuneano tra le sillabe, ma questo rischia di far dimenticare come ancora più speciale sia il loro rapporto con il silenzio, con il disporsi all’ascolto del mondo e delle sue storie, con il muto guardare perdendosi senza meta tra i paesaggi e i colori dell’universo. Sharo Gambino era uno di questi scrittori: di frequente taciturno eppure inevitabilmente fluviale sulla pagina bianca, silenziosamente bulimico nell’assorbire la realtà quotidiana e contemporaneamente quasi frenetico nel volerla restituire al lettore sotto le forme più varie. Provava un piacere quasi fisico nel vedere continuamente la propria firma su un giornale, su una rivista, sopra la copertina di un libro e si può dire che non ci sia stato genere letterario o modalità di scrittura che non abbia sperimentato: la poesia, il teatro, il romanzo, il racconto lungo e breve, il reportage giornalistico, l’articolo di cronaca, la recensione, la critica letteraria, il saggio di costume, il pamphlet. Ed era, a volte, un piacere infantile, per lui, vedere il nome Sharo Gambino stampato da qualche parte, il piacere del bambino che ha conquistato il nuovo balocco e se lo gira e rigira tra le mani, lo prova, ci trascorre insieme qualche ora del suo tempo e poi ricomincia, con il gusto e l’entusiasmo per una imminente ulteriore scoperta, ad attendersene ancora un altro e dopo un altro e dopo un altro ancora.
Tra la scrittura e la vita non poteva esserci salto, cesura: la scrittura era la vita e la vita scrittura. Ogni giorno davanti alla macchina per scrivere, nessun giorno senza una riga. Forse (e, si potrebbe dire, opportunamente), nemmeno stabiliva o desiderava stabilire gerarchie tra generi, tra tipologie di scrittura, tra modalità espressive e identificare Sharo Gambino con uno specifico genere significherebbe, in fondo, tradire la sua autentica ispirazione, che era mobile, mai paga di se stessa, assetata del mondo, curiosa degli uomini e delle cose. Certamente, in tale ispirazione “irrequieta”, hanno trovato posto figure paradigmatiche, personaggi, reali o d’invenzione, che l’hanno accompagnata con la forza potente di una suggestione: il Vizzarro di Vazzano, il “prete-brigante” di Serra don Domenico Rachiele, Gesuino di Nardodipace, il rivoluzionario Pasquale Cavallaro di una breve stagione di rivolta a Caulonia, ma era un’ispirazione che sempre affiancava alla stabilità del punto fermo la ricerca inquieta di nuovi territori, di nuove occasioni di scrittura, partendo da un particolare modo di osservare la realtà per cercare di coglierne l’altro volto, la faccia nascosta, il non detto. Un modo che, talvolta, trovava nel “giallo”, nel mistero da disvelare, nel rebus e nella sciarada da risolvere, un esito giornalistico o narrativo pressoché consequenziale, come era accaduto nel caso dell’ipotizzata presenza di Boccaccio nella Certosa di S. Stefano del Bosco, dell’assassinio del vescovo Bugliari a San Demetrio Corone, dei presunti affreschi di Renoir a Capistrano. O nel giallo letterario dei versi di Anna Maria Edvige Pittarelli di Francica, poetessa dalla biografia e persino dall’esistenza incerta, giudicata da Benedetto Croce una “grossolana falsificazione” settecentesca compiuta da “qualcuno della famiglia o da altro letterato del luogo”. Il razionalismo di Gambino trovava nel “giallo” il proprio autentico ubi consistam, poiché non poteva certo saziarsi delle verità conclamate, dei dogmi indiscussi, delle presentazioni di comodo di una realtà che, al contrario, egli tendeva a denudare, a sottoporre al vigile esercizio della ragione, a indagare nelle sue pieghe più nascoste, per scioglierne il garbuglio e rivelarne il volto solitamente in ombra. Ma sembra necessario aggiungere che, forse, ancor più caratteristica della sua ispirazione era l’attenzione per gli ultimi, un’umanità minore costituita soprattutto dai ceti subalterni delle Serre calabresi, i contadini di Cassari e Ragonà, i carbonai di Serra San Bruno, gli uomini in lotta con le “potenze” della natura e della storia. Raccontare il rapporto quotidiano con la terra e con un habitat ostile, a cui sono abituali la siccità e le alluvioni; descrivere l’esistenza ctonia dei carbonai, figure di nerofumo in continuo contatto con gli elementi primordiali; rappresentare sulla pagina le contraddizioni irrisolte di una storia che è stata, anche, storia di miseria e di dolore, ha significato per Gambino scavare nella “cattiva coscienza” di chi non ha voluto né vedere né sentire, far affiorare in superficie quei mondi che troppi avrebbero preferito lasciare colpevolmente sommersi.
E in quest’ultimo volto, tra i tanti possibili, del suo itinerario di scrittore sembrano ricongiungersi, in una certa misura, anche gli altri, poiché ciò che affiora alla fine – e si potrebbe dire quasi ogni qualvolta si abbia a che fare con Gambino – è l’altra storia, quella che appare nel momento in cui della realtà si ha la forza e il coraggio di far cadere le maschere.
Valeria D'Agostino è giornalista pubblicista, curiosa del bello, amante della natura e della poesia. Ha contribuito a realizzare il Tip Teatro di Lamezia Terme, già ufficio stampa di Scenari Visibili, blogger sin dagli esordi di Manifest Blog. Ha lavorato per Il Lametino, attualmente corrispondente esterna della Gazzetta del Sud. Nell'ambito della scrittura giornalistica ha prediletto un interesse particolare per le tematiche sociali, quali in primis la sanità e l'ambiente, culturali, e artistiche. Si divide fra Lamezia Terme e Longobardi, costa tirrenica cosentina dove si occupa di turismo e agricoltura biologica. "Un buon modo per dare concretezza al concetto di fuga".
1 commento
Aggiungi il tuoCredo sia sfuggito alla redazione il nome dell’autore dell’articolo, che non è Valeria D’Agostino ma lo scrivente. L’articolo qui riportato, senza autorizzazione alcuna da parte del suo autore, è apparso nel giornale on line “Il Vizzarro” il giorno 22 aprile 2018. Per chi volesse approfondire o dedicarsi al confronto:
https://www.ilvizzarro.it/apertura/nessun-giorno-senza-una-riga-sharo-gambino-a-dieci-anni-dalla-morte.html
Vi invito, pertanto, a rimuovere immediatamente questo testo e a pubblicare una chiara rettifica, restituendo a ciascuno il suo. Grazie
Tonino Ceravolo