[Per un felice Natale]
Non sono quella che si può definire ”donna di casa” o ”femmina da sposare”; sono concetti (per me) tanto obsoleti quanto diseducativi e ignobili.
No, non lo sono mai stata. Non è nella mia natura, vivo in un particolare limbo scoperto solo per un lato da quelli che sono i vessilli della cultura dominante.
Mi interessa davvero poco ”saper fare” quello che si deve fare. Ho un costante bisogno di imparare, apprendere e sperimentare… ma solo ciò che ritengo fondamentale per l’accrescimento del mio caotico ”vaso di pandora” interiore, in ragione del mio essere un essere vivente.
Questa mattina mi agitavo tra la culla e i generosi dolci rigonfi di panna in cucina. Osservavo la tazza nella quale dondolava la schiuma del mio caffè (mi chiedo ancora come si possa lasciare ad un sorso di caffè la responsabilità della riuscita di un’intera giornata). Avevo quella sensazione di perdizione che si ha durante le festività, ormai ci sono abituata, ”è la condizione dell’uomo” mi dicono.
Terribile, no?
Passeggiando per le vie di casa mia, mi imbatto in un’asse da stiro, di fianco mia madre giocava con il ferro accarezzando delicatamente le soffici stoffe.
In un lampo mi trovo al suo posto a coccolare magliette e pantaloni, sfogliando, di tanto in tanto, qualche altro indumento non ancora ultimato.
Passavo il ferro su e giù; passavo il ferro con le mani, sotto e sopra; passavo il ferro su quelle che erano da sempre le camicie di mio padre. Non ne aveva molte e, di sicuro, non erano tanto belle e lavorate da poter essere definite ”eleganti”.
Ecco quella verde a strisce bianche… in realtà la parte verde era talmente sbiadita che i confini tra i colori risultavano impercettibili. Ne aveva una blu! Sì… quella blu la ricordo da anni, diversi, a dire la verità.
Un bel blu notte, con dei miseri dettagli in rosso.
”Sì, passo il ferro anche a te…” dicevo alle maniche stropicciate. E mentre solcavo le onde delle pieghe rosse e blu, trovavo, di tanto in tanto, la dolce schiuma che si poggia sulla battigia in una fresca mattina di dicembre. Ma quella, quella che toccavo io, non era la soffice schiuma del mare, no.
Era della pittura.
Pittura che non andava via con un paio di lavaggi, né con altri ancora. Le gentilezza dell’acqua e del sapone è davvero troppo tenue per poter mandare via tanta rozzezza.
Continuavo ad indugiare sulla manica, guardavo quella santa piega che non voleva cedere sotto il passo del mio strumento. Stavo per arrendermi quando, nello stesso istante, ho compreso che non era una piega.
Era una bella cucitura.
Punti di sutura curati in ogni dettaglio che sfuggono però alla potenza del calore. Non avrei mai potuto livellare quei confini. La cicatrice avrebbe vinto su tutti i miei sforzi.
La toccavo e vedevo mio padre con la mano sulla spalla, magari sanguinante, la camicia strappata da qualche attrezzo, lui stanco appoggiato alla calma di una parete.
Continuo, suoni di pipite e zampogne distraggono i miei pensieri. L’aria era fresca questa mattina, piacevole sulla pelle.
Il ferro chiamava, lo avevo lasciato a testa in giù!!!
Vado avanti nella costruzione della mia opera d’arte; giro e muovo il mio arnese in direzione opposta, devo vincere la marea, puntare il porto.
Trovo un intoppo, la prua mi si incaglia dentro un buco, maledizione!!!
La stoffa è sfilacciata e spoglia, trovo davvero che non ci sia più nulla da fare. La nave affonda, con lei anche la gioia di un salvataggio.
Abbandono il ferro, piego le camicie.
Di sicuro qualcun altro dovrà stirarle nuovamente.