Succedeva spesso, quando affrontare una telefonata le metteva particolare soggezione, che passasse minuti, ore, davanti allo schermo luminoso, fissando il nome dell’ignaro destinatario della chiamata.
Cercava allora qualsiasi pretesto per rimandare il momento: spostare ogni oggetto della scrivania, disponendolo in schiere degne del gioco degli scacchi, osservarsi allo specchio, alla ricerca di un antico difetto o di un’ignota bellezza, ripetere per l’ennesima volta, ma variando accuratamente il tono, le frasi che avrebbe dovuto pronunciare.
Riconosceva in questi atti (e nell’esitazione che li caratterizzava) una certa dose di maniacale scrupolo, di malcelata codardia che a fatica gli altri avrebbero attribuito alla sua persona. Per respingere questo pensiero, di certo non edificante, si convinceva allora che certamente la telefonata sarebbe stata molesta e inopportuna, come spesso ne aveva ricevute: nel bel mezzo di una discussione, al culmine di un approccio amoroso o, più prosaicamente, con la forchetta che restava a mezz’aria, il primo boccone dopo ore di digiuno.
Eppure non la sfiorava il dubbio che proprio la dilazione del momento potesse a sua volta essere motivo di fastidio e che la volontà di non recare disturbo fosse vanificata proprio dall’esitazione, che il rinvio, insomma, finisse con l’inciampare nel fatidico momento sbagliato che in ogni modo cercava di evitare.
Di solito, per uscire dall’impasse estenuante di dover immaginare o prevedere la vita altrui, attività del resto non esclusa dal consistente rischio del fallimento, bastava chiamare qualcun altro.
Archeologa. Bibliofila. Abibliofoba. Lettrice vorace, scrive fin da quando è in grado di farlo, ma declina puntualmente la responsabilità di spiegare i contenuti, con l'elegante pretesto che "la penna ne sa di più di chi scrive".