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Vibo Valentia: il Parco Archeologico di Mileto Antica tra memoria e spaesamento

C’è una Calabria che ogni volta che la vedi, riesce a stupirti.

E’ una Calabria di semplicità e spontaneità. Di larghi sorrisi. Di occhi ancora rimasti bambini, capaci di meravigliarsi per qualsiasi cosa attiri l’attenzione, per qualsiasi cosa risulti nuovo ed esotico. Capace di arrossire ed imbarazzarsi, ma mai di perdere contegno e dignità. E’ questa la Calabria antica che ancora sopravvive nel vibonese, nei paesi del Monte Poro, tra Spilinga e Mileto, l’entroterra arso dal sole dell’estate della costa degli Dei, terra antica e meravigliosa, tra acque cristalline, piccoli pesciolini che sguazzano nei fondali sabbiosi e rocciosi, che si mimetizzano e corrono tra le gambe dei bagnanti. Questa è la Calabria che tantissimi turisti conoscono e ammirano. Ma c’è anche una Calabria più nascosta. E’ quella dell’entroterra, dove il mare inizia a confondersi tra i monti e le atmosfere si fanno più rarefatte, tra altipiani coltivati a patate e colline scoscese, devastate dagli innumerevoli terremoti che nella storia hanno ristilizzato l’aspetto di una terra sempre in movimento, inquieta, ma proprio per questo piena di passione. A Spilinga dopo una mezza giornata al mare tra le acque cristalline di Capo Vaticano, ci fermiamo come tappa intermedia prima di raggiungere Mileto. Spilinga è la patria della nduja calabrese, ma noi la ricorderemo più per questo meraviglioso altopiano, che è il Monte Poro, un grande monte piatto posto a interrompere il corso della costa tirrenica calabrese. Qui ci fermiamo con gli altri compagni di viaggio, presto un negozio di prodotti tipici. Si osservano con grande gusto, masse di cipolle di tropea e di peperoncino rossissimo e invitante, prodotti sottolio, la classica nduja e soppressata, e tutte le meraviglie della cucina tradizionale. Una riflessiva ma sorridente ragazza, alla bottega, ci porge i suoi prodotti (squisite cipolle sott’olio, tre mazzetti di profumatissimo origano e una bottiglia di vino rosso squisito). Gli diciamo che siamo di Lamezia, lei dice che ci viene sempre in inverno, al centro commerciale… Sembra che per lei il centro commerciale sia quasi un posto esotico, e in realtà lo è rispetto al luogo incontaminato in cui vive. Le consigliamo di farsi un viaggetto nella vera Nicastro, lei ci sorride. Non appare convinta. Ma la sua ingenuità mi fa pregare per lei, che mai possa perdere questa <<porezza>>, capacità di assorbire i liquidi della modernità liquida senza farsene mai veramente trasformare. Che per lei il centro commerciale rimanga un gioco e non uno scopo a cui conformarsi.

Salutiamo lei e la sua famiglia e ci dirigiamo verso Mileto dove ci attende un’amica lametina, che fa la restauratrice. Ci vuole fare conoscere l’antica Mileto. Questa è stata nell’alto medioevo una città importantissima, strategica per i normanni, per il controllo non solo del vibonese e delle Serre, ma persino dello Stretto, che da qui appare appena, ma chiaramente, da questa collina posta tra il Poro e le Serre. Mileto moderna, questo doppio creato in seguito al terremoto del 1783, da cui venne abbandonata la vecchia Mileto, è una cittadina piena di case non finite e tutte difformi l’una dall’altra. Sul non finito calabrese ci sarebbero molte considerazioni da fare, di certo è anche un fenomeno antropologico e non solo di stampo economico. In una terra che ciclicamente trema la gente ha interiorizzato una sorta di rassegnazione per il futuro e fatalismo, non serve finire le opere se tanto poi un nuovo terremoto ce le porterà via. In tal senso l’apparente squallore forse è più un fattore culturale, quasi psicologico, che va compreso e risolto eliminando la rimozione. Ma se Mileto con le sue case difformi e incompiute non ci affascina per fortuna tutto cambia non appena giungiamo presso gli scavi della Mileto antica. Qui le case incompiute non ci sono proprio, è rimasto solo qualche muro di contenimento o i resti delle piante degli edifici ecclesiastici della vecchia città e della residenza del vecchio signore della città Ruggero. Nel tempo gli innumerevoli terremoti l’hanno devestata fino a comportarne l’abbandono.

Naturalmente nell’opera di accompagnamento alla visione degli scavi non siamo soli, siamo scortati dai ragazzi della cooperativa che si occupa della valorizzazione della sede archeologica. Sono ragazzi e ragazze meravigliose, dagli ampi sorrisi, preparatissimi, beatrici di un mondo antico, di grandezza, che ora non c’è più, ma che si fa ancora sentire dai meandri di un passato mai finito, mai superato, ma sempre presente, anche attraverso i suoi resti che vanno a comporre il nostro attuale presente, seppur ricomposto in nuove forme, conferiteci dalla modernità, nuovo mito importato e decontestualizzato dalla storia millenaria di cui siamo discendenti, consapevoli o meno. Purtroppo sul sito non è tutto oro ciò che luccica. La Calabria è una terra di antinomie. Una terra della meraviglie ma funestata da una lotta diabolica tra le forze del bene, ragazzi innocenti e anziani meravigliosi, e le forze del male, il cinismo, la criminalità, l’ipocrisia, il totale disincanto. Vediamo subito come almeno metà del sito è rimasta devastata da un incendio chiaramente doloso e recente. Per fortuna le rocce non bruciano, seppur certo a causa del calore possono scoppiare. Ma queste rovine hanno visto di ben peggio rispetto a qualche stupido mafiosetto locale che ha pensato bene attraverso chissà quale ragionamento contorto di ricevere un beneficio attraverso le fiamme. Ma sappiate che non solo non ci riuscirete, la vostra opera assassina ha consentito di far venire alle luce nuove meraviglie, attraverso l’incendio della sterpaglia che celava antichi tesori. Insomma a volte probabilmente anche il male é necessario, e come i vulcani che riconcimano il terreno dopo la devastazione iniziale, forse anche questi atti infami, serviranno a rinsaldare le coscienze, a riavvicinare i buoni, per far fronte comune contro le forze dell’odio: orde barbariche che devono abbandonare questa terra, e succederà un giorno. E io quel giorno ci sarò. E brinderemo tutti insieme alla nostra liberazione.

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Accolti dall’Associazione Culturale Mnemosyne, ieri pomeriggio al Parco Archeologico di Mileto Antica, in provincia di Vibo Valentia, è stata per noi una vera sorpresa. Scoprire nuovi luoghi, specie ricchi di storia e di memoria, non fa che allietare la nostra meraviglia. La bellezza va cercata, e per farlo c’è bisogno di allenare gambe, braccia, e occhi. L’associazione, che ieri per il nostro arrivo era composta da Annarita Russo, Carlo Ramondini e Cristiana La Serra, presidente della stessa, è incentrata su Vibo ed il suo territorio al fine di favorire la divulgazione e la conoscenza del suo patrimonio archeologico ed artistico, e, di conseguenza, favorirne la tutela. Grazie a questi giovani studiosi e appassionati, il Parco è visitabile venerdì, sabato e domenica, ore 9/13 e 17/20. Su prenotazione è visitabile anche gli altri giorni della settimana. L’area di Mileto Vecchia è l’unico Parco Archeologico Medievale esistente in Calabria. La titolatura a Monsignor Antonio Maria De Lorenzo, vescovo della medesima diocesi, è legata alla particolare sensibilità che quest’ultimo ebbe nei confronti della città abbandonata. Frequentata, probabilmente, in epoche pre – elleniche, Mileto venne edificata sulla dorsale di due colline di arenaria, circondata da profondi valloni e naturalmente difendibile. Si diffuse la convinzione di un passato magnogreco e romano della città tanto che, nel 1916, anche l’allora Soprintendente Paolo Orsi si accinse a eseguire alcuni scavi presso le rovine dell’Abbazia con la speranza di rinvenire i resti della città classica. Ma fu solo dagli anni ’90 che il sito fu oggetto di moderne indagini archeologiche, presso le absidi della S.S. Trinità e l’area del complesso episcopale, mentre si datano al 2015 le più recenti campagne di restauro architettonico delle strutture superstiti.

Dalla visita guidata di Cristiana La Serra:

Siamo sul sito dell’antica Mileto, quella originale. Quella che vediamo è la ricostruzione post terremoto del 1783. La città, si sviluppava da questa collina a quella di fronte. Non abbiamo molte notizie sull’origine vera e propria. Il fatto che si chiamasse Mileto fa pensare ad un origine di età greca, per via della Mileto in Asia Minore, però in realtà di età greca non è stato ritrovato niente. Sappiamo che esiste una villa romana, all’inizio di Mileto moderna, però doveva essere una villa rustica, isolata, non un vero e proprio insediamento. Sappiamo anche che tra Vibo e la cittadina di Nicotera correva la via Popilia, la zona di frequentazione di età romana, utilizzata anche in età medievale, per il controllo della vallata interna e del porto, e qui i bizantini sicuramente avevano captato l’importanza strategica del luogo, e deciso di fondare il loro castron sulla punta dell’altracollinetta, ch’era naturalmente difendibile: si trovavano in una posizione sopraelevata, da lì vedevano tutto. Poi sono arrivati i Normanni nella nostra regione, i due fratelli Ruggero e Roberto decidono tra il 1058 -1059 di vivere qui. Ruggero si innamora del territorio e tra il 1063 e il 1071 fonda l’Abbazia, con un legame diretto con Roma. Infatti, mentre tutte le altre chiese della Calabria erano legate alla metrapolia di Reggio e di Costantinopoli, e quindi all’Oriente, questa no, va in un’altra direzione come pure l’Abbazia di Sant’Eufemia. Ruggero ha questo legame speciale con la chiesa che diventa il mausoleo della sua famiglia. Decide, infatti, di essere sepolto qui, lui e la sua prima moglie, mentre il figlio e la sua seconda moglie vengono seppelliti in Sicilia. La chiesa è lunga più di 70 metri, è a tre navate, un transetto, e tre absidi. Ha una storia travagliata, ed è stata consacrata diverse volte. Sappiamo che un mese dopo i funerali di Ruggero viene consacrata di nuovo. Addirittura c’era forse il papa stesso in quella occasione. Terra devastata più volte dai terremoti, nel 1638 e 1659 si registrano due bei colpi. Da lì la chiesa è stata parzialmente distrutta e poi ricostruita in un cantiere durato 40 anni (Il muro a scarpa risale a questa ricostruzione). Durante la pulizia sono stati trovati lacerti di pavimento dell’età del ‘600. Un’altra zona doveva probabilmente essere quella di un baldacchino, a mo’ di ricovero di qualche sepoltura privilegiata. Quel che sappiamo deriva dalle fonti e dalle planimetrie antiche, come questa che risale al ‘500, quindi precedente al terremoto e alla ricostruzione. L’originale chiesa normanna presenta 2 chiostri, una cisterna ristrutturata nel ‘600 e poi adibita a fontana (ci sono dei tubuli in ceramica per il convoglio delle acque). Non sappiamo di preciso la storia del sarcofago di Ruggero, custodito oggi a Napoli. C’è un’apertura postuma e non capiamo a cosa potesse servire. Si vede l’ultima collocazione del sarcofago. Si vede il campanile e il muro, scarpa dell’Abbazia, e sotto il sarcofago. Tuttavia, secondo un’altra planimetria del collegio greco, custodita a Roma, della seconda metà del ‘500, il sarcofago di Ruggero è posizionato nella navata laterale. S’intuisce, quindi, uno spostamento.

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Davide De Grazia,

Valeria D’Agostino

Valeria D'Agostino è giornalista pubblicista, curiosa del bello, amante della natura e della poesia. Ha contribuito a realizzare il Tip Teatro di Lamezia Terme, già ufficio stampa di Scenari Visibili, blogger sin dagli esordi di Manifest Blog. Ha lavorato per Il Lametino, attualmente corrispondente esterna della Gazzetta del Sud. Nell'ambito della scrittura giornalistica ha prediletto un interesse particolare per le tematiche sociali, quali in primis la sanità e l'ambiente, culturali, e artistiche. Si divide fra Lamezia Terme e Longobardi, costa tirrenica cosentina dove si occupa di turismo e agricoltura biologica. "Un buon modo per dare concretezza al concetto di fuga".

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