Un modello di sviluppo da rivalutare.
Chiunque provi a immergersi in un humus culturale non può minimamente pensare di bistrattare un modello di sviluppo culturale sovranazionale come quello basato sui fondi della Comunità Europea con i quali, oramai, la gran parte delle imprese e delle associazioni culturali ha a che fare. Nel nostro mondo e nel nostro presente iperglobalizzato la pioggia di risorse comunitarie che ha innaffiato anche i più piccoli semi delle più piccole comunità locali è stata e sarà ancora fondamentale per molto tempo.
Tuttavia, quanto sarà poi giusto basarsi esclusivamente su di essi? Quanto sarà utile al nostro essere dei potenziali fautori culturali un’assistenzialità economica che, alla lunga, si dimostra anch’essa piuttosto disomogenea? I fondi della comunità europea hanno dato vita, in pochi anni, a un sistema particolarizzato, nonché a interi settori di neoformazione lavorativa, basati su logiche della progettistica, di una certa creatività audace ma, di contro, facilmente impregnanti di sterile burocrazia, di giochi di potere, di disavanzi umani.
Pur non essendovi direttamente collegato, questo tipo di modello, inoltre, ha la pecca di inserirsi in quegli schemi logici forse tutti italiani che vogliono vedere ogni ramo della cultura come il principale strumento per il rilancio dell’economia e del turismo. Questo può essere vero solo in parte. Per il resto, crediamo che un fatto culturale non solo non possa ma neppure debba avere il profitto come proprio obiettivo. Lo dicono da tempo isolate voci della cultura nazionale come, di recente, Tomaso Montanari: «L’idea che la cultura debba essere profittevole è assurda, oltre che fuori mercato […] pensare a far profitto direttamente dalla cultura è dannoso, oltre che impossibile». Allargando il concetto a ogni tipo di manifestazione, evento o fatto culturale, giungiamo a quella che è la nostra concezione di azione culturale, idealistica, forse, ma pur concretamente raggiungibile con uno sforzo di modificazione della mentalità. Insomma, fatta eccezione per quegli esercizi commerciali la cui naturale vocazione è totalmente dedita a settori culturali (prime fra tutti le librerie, un mondo completamente in crisi e pure costretto a una nuova ri-definizione di sé), noi crediamo che qualsiasi soggetto operante nella cultura non possa che produrre, in modo diretto, una sana economia della mente e dello spirito e, in maniera indiretta, un vero profitto economico che possa ricadere positivamente nei vari territori.
Prima della fine. DeScrivo3
Dunque, continuare a descrivere la realtà circostante, comprendere le dinamiche storiche e sociali che hanno mosso e che muovono la nostra terra, riconsiderarci, diventare altro-da-noi, saper leggere un paesaggio, metter a fuoco le radici e provare a disegnare un futuro diverso, che non conosca spopolamento, disagio, sterile nostalgia. DeScrivere, inoltre, sta per un cambio di rotta. Per scrivere al contrario. O per decostruire il pensiero unico e dominante, il conformismo politico, sociale e culturale. Questi sono solo alcuni degli obiettivi che continuiamo a porci da ormai cinque anni. La rassegna DeScrivo, giunta alla terza edizione, cova il sogno di un’ampia offerta culturale per la Calabria, dalla Calabria: dai calabresi che hanno a che fare con un’utopia possibile, da quelli che hanno conosciuto lo scontro, la rassegnazione, la stanchezza ma, subito dopo, il coraggio di ri-costruire, di gettare le reti in un mare di squali, di pazientare, di interrogarsi. Dai calabresi che hanno oltrepassato confini, ridisegnato geografie, operato in modo esclusivamente inclusivo.
Da loro giunge la vera forza per r-esistere. Si è parlato per anni di reti e di connessioni, cercando di promuoverle dal punto di vista delle relazioni, tra un’iniziativa e l’altra, tra una realtà e un’altra, tra un microcosmo e l’altro. A ragione si è insistito sulla necessità del fare rete, di avvicinarsi, di lottare a testuggine contro il mostro della desertificazione culturale. Noi vogliamo immaginare di poter compiere un passo ulteriore. Vogliamo spezzare, anche per un solo attimo, gli anelli della catena e ricongiungerli, per vivere l’esperienza di una nuova cartina geografica, per affratellarsi in modo decisivo, per scambiarsi sogni e materie, vicoli e strade, mare e terra.
Proveremo a farlo, con tutti coloro che vorranno aiutarci. Proveremo a farlo qui, dalla terra e per la terra di Alvaro, La Cava, Padula, Répaci, Strati, Seminara e anche di Umberto Zanotti-Bianco. Dalla terra e per la terra di Rotella, Cefaly, Mattia Preti. E di Vittorio Butera, Michele Pane, Franco Costabile, Felice Mastroianni, Lorenzo Calogero e quella di Barlaam, Cassiodoro, Campanella, Telesio. Questi e molti altri non vogliono essere nomi da ripetere o da fissare in uno sterile Olimpo calabrese, né vogliono ricoprire il ruolo di miti, maestri o guide dai quali prendere semplicemente l’esempio. Crediamo che dei veri maestri e delle vere guide difficilmente si potrà comprendere a pieno l’essenza. Un vero maestro, una vera guida, non si supera, né si insegue: si prova a completare. E a complicare. Dalla Calabria dei Miti vogliamo imparare a correre sulle nostre gambe e a continuare a interrogarci, a studiare e a ricercare.
Dobbiamo farlo prima della fine. La fine come momento liminare, di passaggio tra un prima e un dopo, dal sonno al risveglio di cui già molti provano a farsi carico. Vogliamo immaginare di dare un degno finale a una fase colma non soltanto di semplice rassegnazione ma, di più, contraddistinta da subdolismi culturali, da giochi di potere che fanno dell’incoerenza sociale e politica il loro strumento più potente. Ma la fine dev’essere anche, dalla parte di tutti noi, quella dell’iperbuonismo, della sterile osservazione, dell’illusorietà giovanile e delle disillusioni coatte imposte da un mercato del lavoro ai limiti della decenza e, spesso, della legalità. Prendendo in prestito un sentimento simil-millenarista da chi spesso trova rifugio esclusivamente nello spirito e nella fede, dobbiamo immaginare un vero atto finale per la stragrande maggioranza delle dinamiche che contraddistinguono il nostro Sud e i sud del mondo. Per iniziare a ricostruire, mattone dopo mattone, quello che verrà dopo. E urge farlo subito. A partire dal nostro presente.
Valeria D'Agostino è giornalista pubblicista, curiosa del bello, amante della natura e della poesia. Ha contribuito a realizzare il Tip Teatro di Lamezia Terme, già ufficio stampa di Scenari Visibili, blogger sin dagli esordi di Manifest Blog. Ha lavorato per Il Lametino, attualmente corrispondente esterna della Gazzetta del Sud. Nell'ambito della scrittura giornalistica ha prediletto un interesse particolare per le tematiche sociali, quali in primis la sanità e l'ambiente, culturali, e artistiche. Si divide fra Lamezia Terme e Longobardi, costa tirrenica cosentina dove si occupa di turismo e agricoltura biologica. "Un buon modo per dare concretezza al concetto di fuga".