“A fhina do’ mundu” da De Martino a mia nonna

Cosmogonie e Apocalissi

Benché i motivi che portano alla percezione della fine dei tempi siano tanti e di svariati tipi, è innegabile che uno dei più importanti, e quindi più ricorrenti, per noi uomini è il motivo della guerra. Guerra e Apocalisse si intrecciano da sempre nell’immaginario percettivo umano anche se per molti anni sembravano non toccarsi. Il fascino misterico dell’Apocalisse, infatti, era paradossalmente più comprensibile nella sua componente, per così dire, divina, mentre la gran parte degli uomini oggi, ma potrei sbagliarmi, sa che i loro antenati difficilmente avrebbero potuto immaginare una fine del mondo dovuta esclusivamente alla guerra.


Andando a ritroso di molto, però, non si può non tenere conto dello stesso archetipo divino della guerra, e le molte cosmogonie delle culture antiche sono ancora leggibili ai nostri occhi come importanti testimonianze di un mondo che immaginava la sua origine proprio dalla guerra: titanomachia e gigantomachia per i greci, la guerra tra Marduk e Tiamak per i babilonesi e così via, comunque un modo di concepire le origini maggiormente legato alle cosiddette religioni naturali, perché quelle rivelate (Ebraismo, Cristianesimo, Islam) hanno pensato piuttosto a una creatio ex nihilo in cui la divinità si è manifestata e ha imposto un suo ordine delle cose senza tuttavia affrontare alcuna guerra con eventuali sue controparti (dato da correlare, tra le altre cose, con la diversa concezione del tempo delle due tipologie religiose, ciclica per la prima, lineare per la seconda).
Ma questo, come è facile immaginare, non significa affatto che l’idea della guerra fosse assente in queste seconde culture religiose. Infatti, i loro racconti fondativi sono colmi di battaglie (etniche, tribali, territoriali, di persecuzione, chiamiamole come vogliamo) e, inoltre, i loro monoteismi appaiono oggi sempre più relativi: per esempio, le origini più arcaiche dell’Ebraismo sembrano poggiare piuttosto su una sorta di enoteismo, cioè una religiosità che ruota attorno a un solo dio senza però escluderne altri: in questo senso, non pare esservi differenza sostanziale tra la Guerra di Troia e le guerre tra israeliti e filistei, in entrambi i momenti gli uomini combattono e le divinità partecipano al fianco del rispettivo popolo. In questo caso non parliamo più di cosmogonia, è vero. Tuttavia, ciò che conta è l’immaginario secondo il quale anche la divinità può combattere una guerra e, talvolta, necessita di vincerne una per potere creare.

Amore e Guerra

Naturalmente, in senso moderno ciò porta facilmente a pensare al concetto di guerra santa, così facilmente tornato in auge in questi decenni e, purtroppo, superficialmente etichettata come idea quasi esclusiva di una religione in particolare (l’Islam). Ma non è conveniente parlarne qui, andrei di troppo fuori tema e, soprattutto, è argomento che attiene per lo più al nostro mondo post-moderno, un mondo in cui il sacro e altri concetti fondamentali per queste pagine sono prossimi all’estinzione.
Non che il mio interesse sia prettamente religioso, anzi, ma mi incuriosisce immaginare di che tipo possa essere, oggi, l’idea della fine del mondo. Mi domando, in altre parole, se l’estrema emancipazione laica della nostra società (spesso de facto ma non de iure) abbia potuto modificare le nostre categorie di pensiero sulla guerra, se cioè siamo veramente in grado di immaginarne una senza fare ricorso, nemmeno per un attimo, alla dimensione spirituale. Certamente sì, si dirà, le numerose guerre a cui assistiamo oggi si riescono a inquadrare (non a comprendere, ché, al netto di tutte le analisi geopolitiche, mi rifiuto di pensare che una guerra si possa veramente comprendere) con facilità per quello che sono: pessime attività umane e, anzi, i più ferventi di spirito tra noi non ci pensano due volte a considerare le uccisioni e le guerre (che sono uccisioni organizzate) come l’antitesi stessa di Dio. Questo almeno nel caso delle religioni in cui il concetto di amore reciproco tra Dio e gli uomini è fondamentale. Per esempio, come ricordava Dodds, i greci dell’età arcaica non erano in grado di concepire l’amore di e per Dio (e il celebre grecista ricorda le importanti parole di Aristotele, primo a utilizzare il termine Φιλοθεος, dalla Grande Etica: “sarebbe strano, se qualcuno dichiarasse di amare Zeus”). Comunque, se alle truculente immagini della guerra accostiamo l’idea di un mondo prossimo alla fine, e nel senso più concreto del termine, di sterminio della razza umana e di rovina definitiva del pianeta, cosa cambia? Saremmo ancora in grado di non scomodare Dio anche per un solo istante? Ho scritto che forse i nostri antenati non avrebbero mai immaginato una fine del mondo dovuta alle guerre dell’uomo. Cosa diversa, tuttavia, è immaginare che essi supponessero una fine del mondo che dovesse passare necessariamente per una guerra.

La Fine del Mondo di Ernesto De Martino e il Mundus romano

Mi soffermo solo brevemente sugli altri motivi che ai nostri giorni possono portare a immaginare l’Apocalisse: tra tutti, sicuramente, quello maggiormente realistico è il motivo del disastro ambientale, ovviamente causato da noi uomini. È cosa piuttosto recente ma cresciuta in maniera graduale e inesorabile negli ultimi anni, se è vero che già i nostri libri di geografia delle scuole elementari presentavano – come si possono presentare ai bambini – i paragrafetti sull’effetto serra, sul buco dell’ozono e su altri conclamati disastri.
Si è similmente concordi, comunque, nel considerare lo stato odierno di allerta climatica ancora piuttosto in ritardo rispetto allo stato reale del problema. In tempi di pace – ovvero fino a prima della Pandemia – giornali e notiziari hanno accompagnato le nostre quotidianità con svariati aggiornamenti sulle misure politiche ed economiche che i vari governi hanno comunicato, proposto, adottato e, quasi sempre, disatteso. E pure in questi ultimi due anni, gli anni del Virus, e in queste settimane in cui in Europa tornano a risuonare bombe e sirene di guerra, uno spazio per il dibattito climatico non manca mai, seppure maggiormente declinato nell’ottica energetica e, quindi, prettamente economicistico.
Così, il motivo del disastro ecologico, ambientale e planetario torna a ibridarsi e a rafforzarsi con quello della guerra. La sensazione è quella per la quale se gli uomini sono distruttori del proprio circostante in tempi di pace (che è evidentemente uno status illusorio il cui mantenimento è foriero di un enorme sforzo energetico), in tempi di guerra non possono che esserlo ancora di più; il loro potenziale distruttivo nei confronti del mondo aumenta in modo esponenziale, dimodoché la guerra, ma anzi già la sua percezione, rafforza quell’angoscia dell’esserci di cui tanto ha scritto De Martino, fino ad accelerare il moto della cosiddetta crisi della presenza, cioè una crisi dell’individuo sul piano simbolico-culturale che necessita di precisi istituti per essere risolta (per esempio, la crisi del cordoglio – Morte e pianto rituale – per la quale si attivano le necessarie pratiche di lamento rituale, oggi pressoché scomparse anche alle nostre latitudini).


Alle apocalissi, quantunque di carattere culturale, proprio il grande antropologo napoletano dedicò gli ultimi anni della sua vita. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali uscì postumo dopo più di dieci anni dalla sua morte, e ancora oggi viene ripubblicato in una nuova edizione – basata su quella francese – maggiormente aderente al carattere frammentario dell’opera che De Martino lasciò in stato di bozza e con alcune sezioni ancora a un livello embrionale.
L’assunto di base lo comprendiamo con semplicità dalle parole dello stesso antropologo in una celebre conversazione con Cesare Cases: “La fine del mondo c’è sempre stata. Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli, questi marziani piovuti da chissà dove, se non che quella era la fine del mondo? Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma che cos’è la fine del mondo se non sempre la fine del proprio mondo?”.
Perciò, prima ancora di comprendere di che tipo di fine del mondo possiamo parlare, è d’obbligo quantomeno interrogarsi su quale mondo abbiamo in mente. È d’obbligo a me, che mi domando a che tipo di mondo si riferisce mia nonna quando, nel suo accarezzare il definitivo, mi esprime la sua preoccupazione perché è indubbiamente arrivata ’a fhina do’ mundu.
De Martino torna indietro di secoli fino all’arcaico mundus romano. Quando noi oggi utilizziamo la parola mondo sappiamo che ci stiamo riferendo al pianeta Terra ma nella sua spazialità astratta, cosmologica, filosofica o, tuttalpiù, la usiamo come categoria insiemistica per raggruppare parte dell’esistente (mondo animale, mondo vegetale) o del forse esistente, comunque dell’immaginabile (l’altro mondo, mondo parallelo). È desueto, ma pure resistente nei lessici più alti, l’uso di mondo come sinonimo di pulito, e del tutto corrente ancora in molti dialetti, compreso il mio, della mia esperienza familiare, in cui ogni giorno mi mundu una mela o un mandarino.
Questi due aspetti mondani vanno naturalmente letti in correlazione, quantomeno per consolarci alla illusoria idea che intorno alle origini del mondo non possa esserci alcuna sporcizia. Purtroppo, le graduali conquiste umane del relativismo non ci consentono più l’immaginazione (almeno, è fuori dalla mia portata) di un assolutamente pulito e di un assolutamente lercio.
Comunque, nella Roma arcaica, ed è quello che qui maggiormente mi interessa, il mundus era anche qualcosa di molto più tangibile: una fossa dalla forma circolare, strettamente connessa al culto di Cerere, oltre che dei Mani, quindi dei defunti. La tradizione la faceva risalire direttamente a Romolo e alla delimitazione del pomerium (di cui il mundus era vero e proprio nucleo) anche se a leggerne le fonti (Plutarlo, Ovidio, Festo, Macrobio, ecc.), come specifica De Martino, a volte si ha a che fare con un mundus definitivamente riempito di terra e primizie e sigillato per sempre (connesso con Romolo), altre volte con (e su questo siamo maggiormente informati) un vero e proprio pozzo che almeno tre giorni all’anno (24 agosto, 5 ottobre e 8 novembre) veniva aperto per celebrare il Mundus patet, un rito purificatorio e iniziatico, perché preparatorio a una stagione di rinnovamento. Ma qui è conveniente una decisa semplificazione.
Eminenti teste hanno scritto e scriveranno autorevoli pagine sulla intricata questione dei due mundus e della loro importanza nella religione arcaica romana, ma qui, come mi troverò a giustificare spesso, non solo non mi preme schiarire più di tanto l’oscuro, ma questo oscuro voglio assumerlo come paradigma della mia osservazione. Intendo cioè farmi bastare l’idea, per quanto semplificata, che alle origini di questo mondo ci fosse – e perciò, indissolubilmente, alla sua fine ci sarà – un legame difficile da scindere tra i vivi e i morti, tra la fondazione e la caduta, tra il cielo e la terra.
In questa ultima accezione, anzi, e vista la più che certa connessione del mundus con la più antica Cerere, non sono mancate ipotesi anche etimologiche che hanno voluto collegare mundus a una indoeuropea bocca se non addirittura utero. È vero che i più vi hanno visto invece una origine etrusca, ma quel che conta di questo immaginario del mundus è soprattutto il suo carattere agricolo da poter correlare con l’originale ruolo ctonio di Cerere.
Tutta una sacralità, insomma, che tocca indistintamente le messi, la fecondità, i morti; che, per finire da dove ho cominciato, mentre scrivo sento definitivamente scomparsa, lontana, irrimediabilmente perduta.

Bucare il mondo

Le fosse oggi non sono più sacre, e se anche una sola di esse fosse la bocca degli inferi, da dove potessero fuoriuscire i nostri defunti, ecco, io credo che noi non la riconosceremmo, e non tanto a causa dei cristianesimi che hanno spostato i morti dalla terra al cielo ma, piuttosto, per nostra vera e propria incapacità. Saremmo più che pronti a negarne l’esistenza e un suo ipotetico carattere apocalittico. Leggevo, giorni fa, un articolo di semplice quanto inutile divulgazione riguardo ai progressi in campo energetico di una grossa società americana: stando alle nostre conoscenze attuali potremmo già da ora raggiungere il centro della Terra per usufruire di una pressoché illimitata energia geotermica. Non occorrerebbe altro che penetrarla, la Terra, per almeno venti chilometri, al netto dei dodici che l’uomo è già riuscito a raggiungere in Russia.
Sia chiaro, senza neppure un minimo di conoscenza dell’argomento non posso che limitarmi a riportare il fatto, e, in ogni caso, si deve preferire la fuga da qualsivoglia acritico ragionamento anti-progressista, almeno se il progresso è progresso di ogni aspetto del mondo. Ma lamentare la puntuale mancata riflessione, dopo secoli di presunte conquiste razionali e dell’intelletto, questo sento di poterlo fare. Troppo spesso si tende invece a una riflessione post; forse per nostra naturale disabitudine alla immaginazione, è vero, ma è comunque sintomatico che in ogni preventivo studio di fattibilità manchi una intera componente etica. Al come e quando è possibile realizzare, insomma, non si accompagna mai un quanto è giusto realizzare. Forse basterebbe riavvicinar anche di poco l’architettura e l’ingegneria alle loro origini umanistiche. Forse anche qui, è un discorso banalizzante.
Resta il fatto che il nostro mondo – questa volta inteso soprattutto come pianeta abitato e ancora abitabile – lo abbiamo sempre bucato e trivellato, e continuiamo a farlo senza troppe preoccupazioni.


È stato salvifico, di recente, vedere Il Buco di Michelangelo Frammartino: il suo antro, che è grotta calabrese, l’ho riconosciuto per davvero come utero della Terra, e in un’ottica psicanalitica oserei dire che è riuscito a farmi riconoscere il doloroso richiamo verso l’utero materno, che è ritorno a mia madre, alla mia matrice, e non so ancora rendermi conto di quanto mi sia straziante una realtà in cui mia madre si è ammalata proprio a partire dal suo utero. Quando i medici ci diedero la notizia ricordo che vollero darci una concreta speranza di guarigione informandoci di quanto fosse una fortuna, relativamente, ammalarsi all’utero, in quanto tra i pochi organi completamente asportabili senza complicanze: in una donna non più fertile, poi, a cosa serve? Non ricordo cosa rispondemmo. Forse nulla. E ancora oggi non saprei che dire.
Ma Il Buco di Frammartino è durato troppo poco. Oggi le fosse e i fossati tornano a essere quelli delle bombe e dei missili che abbondano a tutte le ore in tv e sui social. Il grano che nell’antica Roma si raccoglieva presso il santuario di Cerere, forse nel mundus, è oggi il grano russo e ucraino che non verrà raccolto, che è già falciato dalla guerra e mietuto dalle bombe. Paventano, per la sua mancanza, una carestia tutta moderna; le famiglie, in preda a isterismi, tornano ad affollarsi nei supermercati come appena due anni fa, mentre corpi rotti, sventrati, slogati e ammassati dichiarano dall’Ucraina, e da ogni altro fronte del mondo, il nostro fallimento. Anche gli uomini, come il grano, vengono mietuti. Saranno gettati in qualche fossa disadorna, senza lapidi e memoriali. Per questi morti la fine del mondo è giunta per davvero. E noi, alla prossima semina, a differenza dei nostri antenati, di questi morti avremo già smarrito il ricordo.
Post scriptum. Mi hanno appena informato di una curiosa congiuntura: “l’ultima dormita del baco, in molti dialetti calabresi, si chiama (dormita) a munnu”. Grazie.

Vive a Lamezia Terme, legge e scrive dove gli capita. A tempo perso si è laureato in Beni Culturali e in Scienze Storiche, a tempo perso gestisce il blog Manifest e a tempo perso è responsabile della Biblioteca Galleggiante dello Spettacolo del TIP Teatro. Di fatto, non ha mai tempo. Ha esordito nel 2023 con il romanzo "Al di là delle dune" (A&B)

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