I pastori mi sono sempre apparsi belli, perché sono solitari;
e i solitari sognano, e li sogniamo anche noi,
lassù in alto, sui monti, tra le macchie,
non visti – soli coi soli.Ghiannis Ritsos, Quarta Dimensione
Nel mezzo di un paesino arroventato dal sole incrociamo la Chiesa ortodossa Panaghìa tis Elladas (Madonna dei Greci). La Grecia è però lontana, oltre il mare trafitto dal Sole. Ci troviamo nel cuore della Calabria, nel misterioso Aspromonte.
Siamo a Gallicianò, sul versante destro della valle dell’Amendolea, immersi in una zona impervia e inospitale. Fichi d’India ed Eucalipti spuntano ovunque. Bollente in estate e gelida in inverno. Incastonata nella valle serpeggia la fiumara Amendolea, bianca come il latte, attraversata da un sinuoso corso d’acqua anche in piena estate. Arrivare in queste contrade è un’avventura, o forse un miracolo. L’unica strada è in più punti franata e rattoppata alla meglio. Chi la percorre stenta a credere che da queste parti possa abitare qualcuno.
Il piccolo paese di Gallicianò va ormai incontro ad un inesorabile spopolamento. Troppo lontano e isolato. Il paese fa 30 abitanti, quasi tutti anziani. La gente del posto parla una curiosa variante della lingua Greca. La terra Greca è lontana, oltre l’azzurro Jonio e spaventosi strapiombi. Eppure, l’antica lingua ha resistito fino ad oggi tra queste isolate contrade.
Le Domeniche d’estate apre l’unico bar del paese. È per i pochi visitatori, dicono gli abitanti. Di Domenica si tiene anche l’unica messa. Non ci sono più preti da queste parti. Un volenteroso prete Africano, partendo dalla lontana marina, giunge qui per celebrare la messa. Lo troviamo intento a recitare l’omelia all’interno dell’altra chiesa del paese, quella cattolica dedicata a San Giovanni Battista.
Arriviamo a Gallicianó in un torrido pomeriggio estivo. Dopo un lungo cammino restiamo a corto di acqua. Mettiamo piede assetati nella piazzetta deserta. Adocchiamo una salvifica fontanella e pregustiamo la liberazione dalla terribile sete. Ma da un angolo spunta un anziano. “No figli miei, andate all’altra fonte. È più buona”.
Il paese, all’apparenza deserto, si anima al nostro passaggio. Giunti alla fontana – la cui acqua dicono sia la più buona al mondo – inizia una lenta processione di persone che, con la scusa di un sorso d’acqua, ci pongono infinte domande.
Ci chiedono da dove veniamo, se siamo giunti a piedi o in auto, se ci siamo rinfrescati. Sospirano quando vengono a sapere in quale moderna e triste città sono finiti alcuni di noi. Con un pathos tragico si commuovono nel sapere quanto abbiamo camminato e patito per arrivare sin lì. “Pazzi” è la parola che abbiamo sentito più spesso, proferita con un tono di compassionevole e materno amore.
Per questa gente soddisfare la curiosità è un’esigenza insopprimibile, atavica. I più anziani ci contendono con le loro domande. Le ragazze rimangono in silenzio, ascoltano, ma non perdono occasione di punzecchiarci quando il nostro racconto sembra stia per terminare. Non temono in alcun modo di essere invadenti o inopportuni.
Guai a sottrarsi a questo rito collettivo, a questa catarsi paesana. Significherebbe violare le regole dell’ospitalità. Perché lo straniero porta infinite ricchezze, con i suoi racconti, ad una comunità isolata. La conversazione è collettiva, inizia con uno e prosegue con qualcun altro, come se tutti, un pezzo alla volta, partecipassero ad un unico grande dialogo.
Non c’è finto compiacimento in questa gente. Il loro sorriso è genuino. La riservatezza o l’indifferenza verso lo straniero è considerata una malattia. Una forte curiosità resiste anche nel più anziano: “e del mondo cosa ci dite? Come vanno le cose?” È ancora viva in questa umile gente la poesia della Grecità. Un senso di accettazione, di tranquillità, di pace scorre sulle rughe degli abitanti di Gallicianò. Povera gente, sì, ma non misera. Grande è la loro dignità. Immensa la loro ricchezza: l’animo sconfinato.
Ci spostiamo dalla fontana e torniamo nella piccola piazza. Trovata all’inizio vuota, ora è ben popolata. Alcuni uomini mettono al centro della piazza dei tavoli, e qui proseguirà la conversazione. Dalla chiesa, intanto, escono alcuni fedeli. Il paese, improvvisamente è un tripudio di voci festose e allegre.
Si è fatto tardi, è tempo di andare. Rimbomba ancora nelle mie orecchie la musica del paese. Lasciamo Gallicanò e scivoliamo verso il tramonto.
Amo la caparbietà degli umili, il loro rifiuto ostinato per ciò che è lontano dall’Uomo. Gli umili, i lontani, i marginali possiedono il dono della mancanza di aspettative. Essi vivono a pieno il presente, non curandosi di ciò che sarà. Gioie e sfortune sono condivise. Per gli umili giustizia e libertà non sono idee e concetti, ma esigenze insopprimibili, vitali.
Ognuna di queste persone è un frammento di una storia incredibile e irripetibile, la cui cui gentilezza è plasmata dalle difficoltà di un territorio aspro e in via di abbandono. Amo questa gente dalla poesia immensa, dalla fede incrollabile e dalla cruda fatalità. Da questo piccolo angolo di Calabria può nascere una nuova umanità, se saremo capaci di cogliere l’eredità di saggezza di questa gente.
In un giorno d’inverno, quando dai comignoli innevati sale una flebile scia di fumo, scenderà dagli alti monti il pastore che a lungo è rimasto dormiente nella valle isolata. Scenderà con al seguito Satiri e Prefiche. I bambini della montagna si uniranno alla processione, portando con loro agnelli e pani.
Il pastore batterà a ogni porta e tutti usciranno sulla piazza. Toglierà dalle spalle il pesante vello di pecora e poserà il bastone. Infine dirà: “io sono l’Antenato”.
Un tempo fummo tutti Greci. Alcuni di noi lo sono ancora.
Sono nato dall'increspatura dell'onda. Non ho deciso io il mio destino, ma il mare che tutto sospinge e muove. - Tu navigherai - mi disse un giorno. E così sono alla ricerca di Itaca. Ho un cuore mediterraneo, crocevia di emozioni e incoerenze, come i molti popoli di questo mare. Ma come posso dire con certezza chi sono?