“Come d’aria” di Ada D’Adamo

“Brevi attimi di felicità fioriscono tra le pieghe dei giorni.

Durano un istante, ma è grazie a questi istanti che si può andare avanti”

 

Daria è la figlia, il cui destino è segnato sin dalla nascita da una mancata diagnosi. Ada è la madre che, sulla soglia dei cinquant’anni, scopre di essersi ammalata. Questa scoperta diventa occasione per lei di rivolgersi direttamente alla figlia e raccontare la loro storia. Tutto passa attraverso i corpi di Ada e Daria: fatiche quotidiane, rabbia, segreti, ma anche gioie inaspettate e momenti di infinita tenerezza. Le parole attraversano il tempo, in un costante intreccio tra passato e presente. È questa la storia narrata da Ada D’Adamo in Come d’aria, edito da Elliot, romanzo autobiografico vincitore del Premio Strega 2023. Vittoria di cui, purtroppo, l’autrice non ha potuto gioire perché scomparsa prematuramente lo scorso aprile.

Un racconto di straordinaria forza e verità, in cui ogni istante vissuto è offerto al lettore come un dono.

“Sei Daria. Sei D’aria. L’apostrofo ti trasforma in sostanza lieve e impalpabile”. Un incipit toccante che conduce il lettore all’interno della storia, nell’esistenza di questa madre di una bambina disabile che, ogni giorno, è costretta ad affrontare sfide, a farsi scudo, a farsi forza, a farsi vita per lei perché “quando hai un figlio disabile cammini al posto suo, vedi al posto suo. Diventi le sue mani e i suoi occhi, le sue gambe e la sua bocca”.

Ada ripercorre le tappe più importanti della sua vita: la passione per la danza, la ricerca della perfezione che si compie comunque con Daria (“desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te”), l’affetto per Paolo che rimarrà sempre un ragazzo, che non invecchierà mai e la convinzione dell’autrice che qualunque cosa le accadrà, sopravviverà perché è sopravvissuta a quella perdita, l’amore per Alfredo, un sentimento forte che sa far male, che unisce e allontana (“la nostra vita è andata così, nella lontananza e nella distanza abbiamo scritto la nostra storia e in questa storia gli spazi bianchi hanno avuto un peso tanto quanto le pagine scritte”), un aborto che è ancora una ferita aperta e poi la nascita di questa bambina tanto desiderata ma nata grazie o a causa di una diagnosi mancata. Daria non camminerà, né parlerà mai, vedrà poco e avrà sempre bisogno di qualcuno che possa prendersi cura di lei. È vita questa? È giusto demonizzare l’aborto? È corretto scegliere il male minore? L’autrice si interroga, scrive lettere di denuncia, cerca conforto in chi c’è già passato perché “ogni malattia rompe un equilibrio”, legge, studia casi, cerca una causa concreta “perché non si accetta di essere vittime di una semplice casualità” anche se “col tempo si smette di accanirsi a cercare risposte, di affannarsi, di voler andare altrove. Non è rassegnazione, piuttosto una forma di accettazione attiva: si smette di combattere contro. Si risparmiano energie e si pensa a combattere per”.

La verità, però, è che Ada, fino in fondo, non si sente compresa da nessuno, né dalla sanità, né dal sistema scolastico, né da chi giudica semplicemente ascoltando un pianto disperato o vedendo due occhi che guardano in due direzioni opposte. Perché la realtà è che “il dolore allontana, la malattia spaventa” e per quanto le persone, anche le più vicine, ti offrano una spalla su cui piangere, una mano da poter stringere, la verità, poi, è che “le vite degli altri scorrono uguali a prima. E questo è di per sé un insulto. È la vita che chiama. E tu resti sempre lì, al palo, mentre loro vanno avanti, vanno oltre, sono già via”. Quanta sincerità ci consegnano queste parole perché è vero che ognuno piange con i propri occhi e nessuno riesce a mettersi davvero nei panni dell’altro, il dolore è solo nel cuore di chi lo vive.

Nella vita di Ada, dunque, la nascita di Daria ha segnato un prima e un dopo “e quel che c’era stato anche solo poche ore prima di te, dopo non ha più avuto molta importanza. Oppure ha semplicemente assunto un significato diverso”.

All’autrice, però, la vita sembra davvero non risparmiare nulla e allora ecco i segni della sua malattia, di quella più tremenda che ti costringe a vedere il tuo corpo cambiare e le cui cure terribili ti fanno solo sperare di avere altro tempo. I verbi smettono di essere coniugati al futuro e il cuore diventa di pietra: “sento che nulla mi tocca. Che potrebbe succedere qualsiasi cosa e non mi sposterebbe neanche di un millimetro da questo mio stato. Forse troppe cose sono successe già, e allora non ho più paura di nulla. Mi sento condannata”.

 

Ho letto questo romanzo in un solo pomeriggio e, alla sera, mi sono sentita disarmata, quasi senza forze perché ci sono sofferenze che scavano nella persona come i fori di un flauto, eppure la voce non riesce ad uscirne melodiosa perché ci sono “recriminazioni che premono contro la sottile pellicola del silenzio” e dolori così intimi e profondi che nessuna parola potrà mai raccontare veramente.

Non sono in grado di concludere questa recensione con i miei consueti “inviti alla lettura”, perché mi sento troppo piccola davanti ad una storia così grande, di fronte ad un’autrice che, come ultimo atto d’amore, ci ha regalato la sua vita per farne tesoro, per riflettere e, forse, per insegnarci a non abbatterci perché nonostante tutto “ora lo so, che una via d’uscita c’è sempre, ma in quei giorni non riuscivo a vederla”.

 

Alessandra D’Agostino

Sono una prof di Lettere appassionata e sorridente! Amo insegnare, leggere e scrivere recensioni, racconti e poesie che, spesso, hanno ricevuto pubblicazioni e premi letterari nazionali. Il mio motto è: "Se la fatica è tanta, il premio non sarà mediocre"... La vita mi ha insegnato che Giordano Bruno non si sbagliava!

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