Ho 34 anni, non sono sposata, non ho figli. Sono quindi la candidata ideale per la campagna del Ministero della Salute sulla fertilità. Eppure fino a un paio di giorni fa non sapevo neppure che esistesse un Piano Nazionale per la Fertilità (sottotitolo “Difendi la tua fertilità, prepara una culla nel tuo futuro”) e che tra gli eventi promossi dalla Ministra Lorenzin ci fosse nientemeno che il Fertility Day, proclamato per il 22 settembre 2016.
Uso volontariamente il termine “proclamato”: la retorica insita in queste azioni è evidente al punto da risultare nauseante, ma purtroppo non si tratta solo di questo e il problema sembra essere più profondo e radicato.
Spinta dall’onda dell’indignazione che ha fatto seguito al lancio dell’iniziativa, ho quindi prima visto le cartoline che promuovono la fatidica giornata e poi ho letto il Piano Nazionale promulgato dal Ministero della Salute.
Una serie di riflessioni sparse si sono quindi fatte avanti nella mia testa, affollandosi insieme a un senso di sconcerto e all’ennesima sensazione di essere quasi derisa e certamente non compresa dai governanti di turno. Cercherò di dare ordine ai pensieri, usando la logica per comprendere qualcosa che di logico ha ben poco.
Gli slogan della campagna.
“Datti una mossa! Non aspettare la cicogna” recita il primo slogan, con tanto di sagoma del noto volatile della famiglia delle Ciconiidae, malinconicamente ritratto inattivo (causa nostra, che non gli consentiamo più di portare nel becco un bel fagotto penzolante con tanto di bebè!) e al tramonto (e qui è chiaro che si allude al declino biologico che mette a repentaglio la fertilità).
“La bellezza non ha età, la fertilità sì” sembra dire la ragazza in jeans e maglietta rossa che con una mano accarezza in maniera del tutto innaturale il ventre e con l’altra sbatte in faccia al lettore una clessidra (Tempus fugit!).
“Genitori giovani: il modo migliore per essere creativi” è un altro slogan ideato da qualche genio della comunicazione, che ritrae due coppie di piedi sotto le coperte, in una posizione che richiama esplicitamente quella invero non troppo creativa del “missionario”. I piedi tanto romanticamente ritratti stringono uno smile (sic!).
“La fertilità è un bene comune”, con evidente plagio della grafica del referendum del 2011 e ancora più preoccupante invasione dello Stato nella dimensione più intima degli esseri umani, in linea con il famoso Discorso dell’Ascensione pronunciato alla Camera dei Deputati nel 1927 senza che sia necessario specificare da chi.
“La costituzione (sì, minuscolo) tutela la procreazione (in rosso) cosciente e responsabile” qui scarpette da neonato avvolte dal Tricolore. Quel che colpisce è che l’espressione “procreazione cosciente e responsabile” è presa pari pari dall’art. 1, co. 1 della L. 194/1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza.
“La fertilità maschile è molto più vulnerabile di quanto sembri”, a corredo c’è l’immagine di una buccia di banana su un gradino vecchio e sporco. Decido che è meglio rinunciare a qualsiasi tentativo di interpretazione.
Da un punto di vista comunicativo si può senz’altro affermare che si tratta di un vero e proprio flop: grafica poco accattivante, senza una linea ma con immagini raffazzonate qua e là, slogan al limite del ridicolo che non hanno tardato a ispirare la proliferazione di ironiche inversioni. Sul messaggio veicolato tornerò a breve.
Il Piano Nazionale per la fertilità. Il documento ministeriale
Si tratta di un documento ufficiale emanato dal Ministero della Salute retto da Beatrice Lorenzin che consta sostanzialmente di due parti: la prima parte (pp. 1-15) identifica gli obiettivi dell’azione promossa dal dicastero e le parti coinvolte (scuola, famiglia, professionisti), individua gli strumenti della comunicazione e i mezzi di monitoraggio del piano stesso; la seconda parte (pp. 16-137) è un documento prodotto dal Tavolo consultivo in materia di tutela e conoscenza della fertilità e prevenzione delle cause di infertilità, istituito con decreto ministeriale dell’8 agosto 2014 e integrato con un successivo decreto del 24 settembre 2014.
Quel che colpisce dopo una rapida occhiata è innanzitutto un uso spropositato e spesso grammaticamente scorretto delle maiuscole: Fertilità, Genitorialità, Maternità, Sistema Riproduttivo sono immancabilmente scritte così. Vien da pensare che siano entità ontologiche o meglio ancora figure divine a cui niente e nessuno può sottrarsi. Si potrebbe obiettare che qualcosa come “Piano per la crescita demografica” poteva forse essere più efficace e al tempo stesso neutro, ma placo lo spirito polemico, dicendomi che non posso iniziare a criticare fin dal titolo…
Leggendo la prima parte, oltre ad alcune idee naturalmente condivisibili, come la necessità di informare i cittadini sulle patologie che possono compromettere la possibilità di avere figli, l’educazione in età scolastica e il ruolo che necessariamente deve essere assunto dagli operatori socio-sanitari del settore, ne emergono altre difficilmente accettabili, espresse inoltre in maniera ambigua e paternalistica. Come intendere ad esempio la “didattica riproduttiva” citata a p. 4? E come accettare l’incipit “I cittadini, indipendentemente dal livello culturale e dall’impiego lavorativo, hanno idee vaghe e sovente errate sugli elementi persino basilari della funzione riproduttiva” (sempre a p. 4), quando al primo tentativo di istituire corsi di educazione sessuale nelle scuole si grida allo scandalo e si mobilitano sentinelle in piedi e non? Quanto all’impostazione della campagna di comunicazione (pp. 8-9), per la quale ci si proponeva di “trovare registri comunicativi e un linguaggio adatto ai target da raggiungere, che passi attraverso i media da loro più utilizzati e non venga percepito come moralistico”, si può senza ombra di dubbio affermare che essa sia già stata un ampio e completo fallimento, come consacrato anche dall’offline del sito dedicato al Fertility Day a pochissimi giorni dalla messa in Rete, complici certamente gli slogan non certo brillanti di cui ho già fatto menzione.
La seconda parte è stata redatta da 27 tra professionisti di istituti sanitari, docenti universitari e dipendenti del Ministero della Salute come esito di un tavolo consultivo sui temi dell’infertilità. Queste premesse sembrano rassicurare sull’equilibrio e la scientificità del documento stesso. Attese smentite già nell’introduzione a p. 20 in cui si legge che bisogna “recuperare il valore sociale della maternità, sia come esperienza formativa individuale sia come bene di tutti”. La frase mi lascia perplessa, ricordandomi ancora una volta quel discorso del 26 maggio 1927 in cui si operava un’identificazione tra il corpo sociale e i corpi degli Italiani, ma è corretta da argomentazioni sulla necessità del ricambio generazionale e dell’istituzione di politiche di welfare e sostegno alla natalità che in linea di principio mi trovano d’accordo.
Dati Istat, rapporti dell’UE e dell’OCSE confermano il fenomeno della denatalità in Italia, in cui la media è di 1,39 figli per donna, ben lontano quindi dal 2,0 detenuto da Irlanda e Francia, che sono così le nazioni più prolifiche d’Europa. L’OCSE non ha certo mancato di sottolineare come la difficoltà dei giovani italiani a trovare lavoro stabile e indipendenza economica influisca pesantemente sulla possibilità di mettere al mondo dei figli, ai quali difficilmente si potrebbero garantire le condizioni di crescita adeguate richiamate dalla nostra Costituzione.
Dopo questi dati abbastanza noiosi e tutto sommato conosciuti, il documento si lancia quindi in interpretazioni di ordine sociale e psicologico:
“sembra diffuso un ripiegamento narcisistico sulla propria persona e sui propri progetti, inteso sia come investimento sulla realizzazione personale e professionale, sia come maggiore attenzione alle esigenze della sicurezza, con tendenza all’autosufficienza da un punto di vista economico e affettivo. Tale disposizione, spesso associata ad una persistenza di un’attitudine adolescenziale, facilitata dalla crisi economica e dalla perdita di valori e di identificazioni forti, si riflette sulla vita di coppia e porta a rinviare il momento della assunzione del ruolo genitoriale, con i compiti a questo legati. Nelle donne, in particolare, sono andati in crisi i modelli di identificazione tradizionali ed il maggiore impegno nel campo lavorativo e nel raggiungimento di una autonomia ed autosufficienza ha portato ad un aumento dei conflitti tra queste tendenze e quelle rivolte alla maternità” (p. 31).
Non ci credo, la crisi con i “modelli di identificazione tradizionali” è responsabile della denatalità? Sì, le donne italiane in effetti non si sentono più solo destinate alla maternità, cercano ancora con estrema fatica di soddisfare le loro aspirazioni professionali e questo secondo gli illuminati autori del documento ha provocato il crollo delle nascite? Non è ben chiaro se la pensino davvero così, perché subito dopo si fa riferimento alla crisi economica che contribuisce al precariato quasi perenne a cui sono condannati i giovani italiani e si citano studi in cui i paesi europei in cui si fanno più figli sono anche quelli in cui più donne lavorano (pp. 32-33).
Ed ecco che mi ritrovo nel grafico a p. 33: linea verde donne 30-34 anni, dal 1982 (anno della mia nascita) ad oggi la linea verde sale di quasi 30 punti percentuali, mentre sono crollate quelle delle donne comprese tra i 20 e i 29 anni che negli ultimi decenni sono diventate madri.
Le donne italiane hanno un grado di istruzione maggiore rispetto al passato e cercano di realizzarsi professionalmente, la soglia di accesso al mondo del lavoro si è innalzata vertiginosamente, lo Stato non fornisce loro l’adeguato sostegno alla maternità, la società a livello medio le considera ancora responsabili delle attività domestiche pur se lavoratrici fuori casa e vi sembra tanto strano che l’età media della prima gravidanza si sia innalzata?
Prevenendo il mio ragionamento ecco il paragrafo “Il ruolo del livello di istruzione e della condizione professionale”. Molti dati sono ripetuti, come quello che evidenzia come sia più alto il numero di donne straniere con titolo di studio medio-basso e senza occupazione che partoriscono rispetto alle italiane; ancora, il 25% delle donne al Sud abbandona il lavoro dopo la nascita dei figli. Un circolo vizioso, insomma, dal quale sembra impossibile uscire per chi voglia avere figli e in cui le misure del Governo in tema di politiche familiari sembrano del tutto insufficienti.
Il documento prosegue affermando che la maternità non è più “un destino biologico” e che le donne europee in generale sono più consapevoli delle loro scelte di vita. Meno male. Proprio a questo punto però, alcune frasi sembrano isolarsi dal resto, per scolpirsi nella mente:
“Cosa fare, dunque, di fronte ad una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte nel mondo del lavoro sospingendole, però, verso ruoli maschili, che hanno comportato anche un allontanamento dal desiderio stesso di maternità? La collettività, le istituzioni, il competitivo mondo del lavoro, apprezzano infatti le competenze femminili, ma pretendono comportamenti maschili” (p. 37).
Queste frasi palesano un modo di pensare preoccupante: dobbiamo neutralizzare la società che ha consentito alle donne di emanciparsi, reiterando gli stereotipi di genere in cui esistono “comportamenti maschili” (e quali? Studio? Lavoro? Libertà personali? Autonomia?) che se adottati dalle donne minano la base stessa della struttura sociale, perché causano la recalcitranza alla maternità. Alla fine della stessa pagina si afferma però che “Siamo, ancora, un Paese che dal punto di vista culturale ha fortemente interiorizzato la questione della asimmetria dei ruoli nei modelli, sia da parte degli uomini che delle donne” e che tale modello andrebbe superato perché penalizza le donne e il loro ingresso (e permanenza) nel mondo del lavoro…
Il documento continua nella sua ambigua e contraddittoria trattazione di questioni complesse e delicate, fortemente intime e personali, fino ad affermare che le donne si trovano in una “condizione entro la quale qualunque scelta fatta è una scelta sbagliata” e che
“La scelta della “non” maternità, appare, però, ancora di segno negativo, come se fosse meno libera e, quindi, quasi da giustificare (con la precarietà del lavoro, la mancanza di servizi per l’infanzia, la crisi economica ecc.). Ma qualsiasi scelta fatta avrà come conseguenza un senso di incompiuto. Sia che si insegua un’affermazione professionale o che si scelga la via dell’essere mamma a tempo pieno (non lavorando), sia che si tenti la strada della “mammamogliemanager” la conseguenza sarà – comunque – un senso di perdita o di inadeguatezza” (p. 38).
Chi vi dice che una donna che sceglie solo di lavorare si senta incompleta se è stato appena affermato che la generazione di figli non è più la sola cifra caratterizzante di una donna? Viceversa, perché una donna che invece abbia scelto (in maniera cosciente e responsabile, come dite voi) di essere solo madre dovrebbe sentirsi inadeguata?
A questo punto la mia pazienza è esaurita: la schizofrenia del documento è evidente, così come è evidente che si tratta di un’accozzaglia di frasi fatte, contraddittorie, dal tono spesso offensivo e paternalistico rivestito di una patina di politicamente corretto che non fa che aumentarne la natura grottesca e volutamente confusionaria.
Decido che ho sprecato fin troppo tempo nel leggere qualcosa che mette in dubbio conquiste come il diritto allo studio delle donne e la loro libertà di autodeterminarsi ed esercito il terzo diritto imprescrittibile del lettore teorizzato da Daniel Pennac: non finire di leggere ciò che ho iniziato.
Del resto credo di avere elementi a sufficienza per giudicare il contenuto del documento, la superficialità e al tempo stesso la pervicacia di alcune affermazioni, la pochezza con cui si definiscono gli esseri umani e le loro scelte. Gli uomini, citati spesso fra parentesi, sono ridotti a meri fecondatori potenziali (vedere il paragrafo a p. 49 “Il maschio e i suoi spermatozoi: due soggetti da proteggere”), ma sono soprattutto le donne ad essere “vivisezionate” e sottoposte per l’ennesima volta a una pressione sociale inaccettabile, che scarica sui singoli le responsabilità di decenni di malgoverno, politiche economiche sconsiderate e mancanza assoluta di uno stato sociale nel senso più avanzato e meno assistenzialista del termine.
Come ultima cosa rileggo i nomi degli autori del documento: su 27 solo 10 sono donne.
Archeologa. Bibliofila. Abibliofoba. Lettrice vorace, scrive fin da quando è in grado di farlo, ma declina puntualmente la responsabilità di spiegare i contenuti, con l'elegante pretesto che "la penna ne sa di più di chi scrive".