Oggi non è domenica.
In quanti, questa mattina, ci siamo svegliati chiedendoci che giorno fosse oggi?
Abbiamo perso la cognizione del tempo, in un tempo in cui i giorni son diventati tutti uguali: la città è più deserta che mai, i piccoli supermarket sono chiusi, e oltre ai coraggiosi giornalai che restano aperti pur senza guadagnare nulla continuando a regalarci una informazione diversa dai social network non c’è altro in giro; il sole si accende e si spegne ma corso Numistrano e corso Nicotera fanno paura col silenzio che c’è.
Manca la vita, mancano i rumori del traffico, lo smog misto al profumo dei bar centrali, i baristi in camice pronti a portare caffè di qua e di là, mancano i vecchi che camminano e raccontano storie, i volti ormai familiari dei nostri amici marocchini che vendono accendini, il rumore dei tacchi, i pianti dei bimbi in giro con le loro mamme. Tutta la città è morta, rintanata nella propria casa. Ancora più morta perché venendo meno quel poco di socialità reale, a causa della funzione deviata del digitale negli ultimi anni, la quotidianità di ciascun singolo, adesso, non può che esaurirsi tutta nel contenitore dei social network.
Siamo diventate delle vere macchine da guerra, dietro i display di smartphone o pc, accomodati su sedie, poltrone, divani o letti. Noi e i social adesso siamo una cosa sola, come non si era mai visto prima. A parte qualche momento legato a solidarietà, scambi di libri o di ricette, la frustrazione degli italiani, attorno all’argomento coronavirus, sta conducendo a una rabbia ch’è solo auto annientamento.
Invece dovremmo ricordarci di tutto quello che ci sta venendo a mancare. Fare tesoro delle “assenze”, di quelle piccole cose che ritenevamo inutili, banali, e che invece erano importanti, ci mancano tanto. Come uscire con degli amici, fare una passeggiata, partecipare a una iniziativa culturale, andare a trovare la nonna e parlare con lei, guardarci negli occhi e dialogare, confrontarsi. Corteggiare, guardare il mare insieme, bere un bicchiere di vino e ridere attorno a tanti compagni. Ci mancano le cose più semplici, insomma, ma non sappiamo dirlo, siamo troppo attaccati dal dibattito macchinoso tra “io la penso così”, e “io la penso così”, senza il minimo di rispetto delle idee altrui, o senza considerare la drammaticità con le sue conseguenti reazioni che in un modo o nell’altro premono, influenzano in negativo il nostro umore.
In questi giorni di quarantena l’Italia, pur con i suoi limiti e i suoi mille motivi per ritenersi in ritardo, sta dimostrando comunque una certa coerenza, una linearità, quanto a regole da seguire insieme. Se pensiamo ad altri paesi, ad esempio alla Gran Bretagna, ci rendiamo subito conto che tutto questo altrove non avviene. A parte la partecipazione in diretta, live, sempre sul pezzo delle nostre ore a casa, a proposito della pizza o delle pulizie straordinarie, dei canti e delle musiche sul balcone, delle bandiere dell’Italia e dell’inno di Mameli, ricordiamoci insieme anche la nostra paura. Ammettiamolo: siamo più fragili che mai. E abbiamo tanto bisogno di essere abbracciati. Siamo più umani, più solidali, cerchiamo un modo per essere fratelli, e se ci parrà difficile non ci arrendiamo, continuiamo a cercarne.
Abbiamo idea di questa cartina geografica in frantumi? L’Italia divisa da un nord e da un sud, da chi pensa a una casa n. 1 e casa n. 2. Abbiamo registrato, forse adesso è più chiaro, che buona parte del sud è nord e viceversa e in questo però non abbiamo ancora imparato a sentirci un’unica parte, un’unica torta. Il senso di irresponsabilità, l’individualismo, l’egoismo, non hanno avuto geografia specie nell’ultima settimana. Diciamocelo, era solo un alibi a cui abbiamo deciso di aggrapparci. Siamo tutti uguali. Non eravamo pronti per fermarci. Non così, non adesso.
Quello che è certo, però, è che il coronavirus ha messo più cose in evidenza contemporaneamente e non possiamo non tenerne conto. Apprendiamo ciò che c’è da apprendere. Facciamo la lista delle cose che, una volta usciti da questo dramma (sempre se ne usciremo), vorremo fare senza più perdere del tempo. Cogliamo l’occasione per non rimandare più niente. Quando il virus non ci sarà più avremo perso anche la cognizione delle stagioni, della circolarità dell’anno. Allora sarà il momento di tirare un respiro di sollievo ma in maniera più matura.
Oggi il mio pensiero va agli amici che lavorano all’interno degli ospedali: medici, infermieri, oss, tutti coloro che vivono più da vicino questo momento e combattono in prima linea, con grande senso del dovere, per continuare ad offrire un servizio a chi lotta fra la vita e la morte. Il mio pensiero va a tutti i sanitari che, nelle ultime ore, in Lombardia e nelle regioni vicine si vedono perdere il respiro perché accanto ad essi ci sono già i primi colleghi intubati. A loro che dall’alto stanno vedendo l’inferno con i propri occhi e stanno pure facendo in modo di arginare tutto quanto, affinché più in basso la curva possa rallentarsi. E poi un pensiero anche qua giù, ai nostri ospedali, a quelli in crisi da sempre, perché manovrati dal malaffare. A chi, all’interno di essi, continua con dedizione a giurare fedeltà a un lavoro tanto nobile e sacrificante. A chi non si arrende e con schiena dritta porta avanti questa battaglia, monitorando la situazione.
Oggi più di ieri mi mancano persone a me care che non ci sono più. Quando penso ai numeri di morti in aumento non posso che provare tremendo dolore: non sono numeri. Immagino i loro volti e la loro solitudine, quella solitudine che non ha permesso loro di compiere un ultimo caloroso saluto con i propri familiari. A questi nostri morti che sono morti da soli, senza un degno funerale e in mezzo al totale chiacchiericcio italiano a proposito di un maledetto virus. A questi nostri morti che sono morti per mano di una modernità telecomandata da un uomo che si crede onnipotente quanto Dio.
Oggi immagino un dialogo più intimo con la mia mamma. Alla fine immagino che mi avrebbe detto di stare più tranquilla possibile ma anche di essere più dolce, più gentile col prossimo, proprio come era solita fare durante ogni discorso o dibattito in cui cercavo di avere ragione. Ma al momento è inutile è triste volere avere ragione attorno a qualcosa. Voglio ritrovare immagini, ricordi, storie del passato, per come suggerito anche dall’antropologo Vito Teti, affinché possa sentire una carezza.
Abbiamo tanti buoni motivi per sentirci un paese unito. Dobbiamo solo crederci.
Valeria D'Agostino è giornalista pubblicista, curiosa del bello, amante della natura e della poesia. Ha contribuito a realizzare il Tip Teatro di Lamezia Terme, già ufficio stampa di Scenari Visibili, blogger sin dagli esordi di Manifest Blog. Ha lavorato per Il Lametino, attualmente corrispondente esterna della Gazzetta del Sud. Nell'ambito della scrittura giornalistica ha prediletto un interesse particolare per le tematiche sociali, quali in primis la sanità e l'ambiente, culturali, e artistiche. Si divide fra Lamezia Terme e Longobardi, costa tirrenica cosentina dove si occupa di turismo e agricoltura biologica. "Un buon modo per dare concretezza al concetto di fuga".
1 commento
Aggiungi il tuoComplimenti VALERIA tutto quello che hai detto e pura verità…. sei entrata nel cuore e nella mente di tutti in modo elegante descrivendo i ns pensieri di liberazione di questi giorni….
Dobbiamo farcela
Ce la faremo
Ci Abbracceremo con tanta gioia di aver sconfitto questo malefico virus e di ritornare alla vita normale con più voglia di viverla❤️