Ci immergiamo nelle acque dell’Amendolea. Un tempo segnavano il confine tra Reggio e Locri, essendo sacre agli uni e agli altri. Proseguendo nel fiume, sotto il sole cocente, ci scorrono addosso le gioie e i dolori di chi ci ha preceduti. Anche noi proviamo la stessa fatica degli antichi che percorrevano la medesima via e anche noi osserviamo quello stesso luogo, immutato negli anni. Udiamo in lontananza la marcia di eserciti gloriosi e le voci in un greco puro, identico a quello della madrepatria.
Ancora oggi quella lingua, studiata nelle scuole, non è scomparsa, resistendo presso gli anziani la parlata greca: anche noi apparteniamo, allora, a quella stessa storia che, mai finita, prosegue attraverso i secoli.
Sarebbe superfluo tentare di descrivere un luogo la cui bellezza meriterebbe certamente numerose parole. Si potrebbe dedicare del tempo a parlare di Gallicianò, della fiumara, dei versanti scoscesi dell’Aspromonte. Ma non è il bel paesaggio quello che ci lascia questa avventura. Non una volta abbiamo pensato che questi luoghi fossero ameni, ma, al contrario, ci sono parsi temibili.
La montagna, come un bosco o una valle incontaminata, sono associate al benessere interiore e alla ricerca di serenità personale. Qui, però, tra pareti rocciose e creste irraggiungibili, altre sono le sensazioni. Ogni svolta del percorso solleva un dubbio, ogni sguardo sollevato verso l’orizzonte genera disorientamento, ogni passo in avanti deve vincere la tentazione di tornare indietro. C’è una forza in questo posto, un elemento insondabile che pervade tutta la zona: basti a ciò l’osservazione della conformazione dei monti che, contorti, girano attorno a se stessi scavati dalle acque del fiume. Tutto sembra non avere una spiegazione.
In questo luogo, riarso dal sole, c’è una divinità. Questa divinità non può essere incontrata in alcuna chiesa, ne’ nei templi antichi o nei luoghi di culto esotici. Essa vive e si nasconde in queste rocce. A differenza delle divinità moderne, portatrici di salvezza e perdono, quella dell’Amendolea pare essere una di quelle raccontate da Cesare Pavese nei suoi Dialoghi con Leucò. Issione chiede a Nefele se avesse visto gli Dei. Quest’ultima, credendo che l’interlocutore non sapesse chi fossero, risponde “Non sai quello che chiedi”. Issione, tuttavia, afferma di averli visti e che “non sono terribili”. Nefele risponde sconcertata “La tua sorte è segnata, chi hai visto?”. Pronta è la risposta “Come posso saperlo? Era un giovane, che traversava la foresta a piedi nudi. Mi passò accanto e non mi disse una parola. Poi davanti a una rupe scomparve. Lo cercai a lungo per chiedergli chi era. Sembrava fatto della carne tua”. Conclude Nefele: “Io ti supplico Issione, non salire alla vetta”. Secondo il mito, infine, Issione verrà spedito nel Tartato per la sua audacia nell’avvicinarsi agli Dei. A noi basta scorgerli a distanza, temendo esiti infausti.
Esiste, in conclusione, una storia dei luoghi che non è semplicemente la storia fatta di date ed avvenimenti, ma è una storia che parte dall’uomo e torna all’uomo. Nel corso di questa storia ogni persona, se lo vuole, può cercare e incontrare la divinità, che è presente in ogni luogo. Non è opportuno però sfidare gli Dei perchè, se dimenticati dagli uomini, abbandonano le foreste e i monti per non farvi mai più ritorno.
Ecco che, allora, è necessario che quanto di bello ed unico sia, fortunatamente ancora, in nostro possesso, fruibile e godibile, sia mantenuto e tramandato. Intorno alla fiumara Amendolea si continuerà a parlare il greco finché ci sarà qualcuno che amerà e racconterà questa storia meravigliosa. Fin quando resterà la memoria sarà ancora possibile scendere nel bosco e incontrare il Dio.
Sono nato dall'increspatura dell'onda. Non ho deciso io il mio destino, ma il mare che tutto sospinge e muove. - Tu navigherai - mi disse un giorno. E così sono alla ricerca di Itaca. Ho un cuore mediterraneo, crocevia di emozioni e incoerenze, come i molti popoli di questo mare. Ma come posso dire con certezza chi sono?