Ho impiegato molto tempo per raccontare il viaggio partito dall’Epiro, nel nord della Grecia, fino a una delle tre dita del Peloponneso, la Messenia. Quando l’esperienza del viaggio era ancora viva, vani erano i tentativi di mettere per iscritto. Così ho atteso. Ho lasciato maturare i segni e le tracce che la Grecia mi ha lasciato.
Perchè proprio il Peloponneso? Perchè non, invece, Atene, Salonicco, le Meteore o qualche isola paradisiaca?
Chi ama le mete più note della Grecia resterà deluso da queste righe. A parte una breve tappa ad Olimpia, c’è poco di storico o di noto nel racconto. Il viaggio è proseguito per villaggi anonimi, per paesi marginali e per contrade sperdute. Esiste una Grecia discosta dai grandi fasti archeologici od eroici. Essa non è meno dignitosa di quella Classica.
Quest’avventura ha lo scopo di superare il pregiudizio che vuole i Greci moderni inadeguati e incapaci di replicare le gesta degli eroi o dei filosofi del tempo. E’ per conoscere questa gente meravigliosa che ci siamo messi in viaggio, e per cercarla abbiamo percorso le parti più isolate della Grecia. Ecco perché il Peloponneso.
Il viaggiatore che voglia conoscere l’Ellade non deve aver timore di perdere tempo in un polveroso villaggio dell’entroterra, né di sedersi all’ombra di uno dei tanti platani che fanno ombra alla minuscola piazza di qualche paesino. “Dia na perasome tin ora” dicono i Greci, ovvero “per passare il tempo“. Lasciare che il tempo trascorra senza impegni e programmi, nell’attesa (che sia ripagata o meno non importa) che accada qualcosa.
Tra le vie di Corone
1 – Tra lo Jonio e l’Epiro. Il mondo Balcanico.
“Talvolta mi piace pensare di essere uno tra i tanti portavoce effimeri della Grecità,
e la Grecità deve passare anche da me per progredire”
– Ion Dragoumis, “Il mio senso di Grecità e i Greci”, 1903
Giungiamo a Brindisi in un giorno di nuvole. Inizia a piovere dolcemente. Un velo di tristezza cala sulla città, le vie sono deserte. Attraversiamo una squallida zona industriale prima di giungere al porto colmo di voci e memorie.
L’imbarco sembra un grande mercato, un mosaico di genti e di lingue. Albanesi, Bulgari, Turchi, Greci, Italiani. Qui il mare fa da ponte tra Mediterraneo e Balcani. Le madri, stanche e fiaccate dal sole, seguono i bambini irrequieti. Un gruppo di albanesi entra nel trascurato bar dell’imbarco, in attesa del traghetto per Valona. Al bancone vi è una donna dagli occhi neri e nostalgici. Guarda il mare senza poterlo raggiungere. In disparte, nell’ampio corridoio, ragazze greche sonnecchiano sui bagagli.
Un turco esala boccate di fumo. Il suo viaggio passerà per l’Epiro, la Macedonia, la Tracia, giù verso Salonicco e Alessandropoli, fino ad Istanbul. Una moderna autostrada taglia la penisola balcanica. Per 670 km attraversa la Grecia settentrionale unendo la costa jonica al confine tra Grecia e Turchia. Un tempo tutte queste terre e i suoi popoli, Greci, Bulgari, Serbi, Macedoni, Albanesi, Turchi, erano parte della Grande Porta, l’impero Ottomano.
All’imbarco notiamo che tra questi popoli un tempo uniti oggi regna una reciproca diffidenza. Secoli di scambi sono stati cancellati da scellerate politiche nazionaliste, volte a contrapporre e frammentare i vari popoli in sterili rivendicazioni territoriali e in sanguinose guerre.
In nome di una presunta purezza dei popoli Balcanici sono stati commessi crimini atroci. Non diversamente dai propri vicini, la Grecia ha proceduto ad epurare la lingua dai residui di turco e slavo. Ha espulso circa 400.000 Turchi a seguito della disastrosa sconfitta in Asia Minore del 1922. I governi del neonato stato Greco hanno preteso di cancellare secoli di scambi linguistici ed etnici con l’imposizione di una lingua artificiale e nostalgica del periodo classico.
Fino a quando non è esistito un concetto di stato Greco, la Grecità ha a lungo abbracciato l’intero mediterraneo, da Alessandria d’Egitto fino all’Anatolia. La Grecia moderna, pretendendo di farsi pura, è diventata provincia autoreferenziale.
Questi pensieri Balcanici vengono interrotti dall’arrivo del traghetto che ci porterà ad Igoumenitsa, porta dell’Epiro.
La nave scivola dolcemente tra i meandri del porto. Davanti a noi l’azzurro infinito digrada nel tramonto, e poi, a poco a poco, si materializzano bianco-verdi dune in lontananza. Le sinuose coste albanesi sono le prime a mostrarsi, belle e vergini.
Sbarchiamo ad Igoumenitsa che è notte fonda. Camion di ogni provenienza costellano le banchine del porto. Dormono al loro interno i lavoratori stremati. Igoumenitsa è posta all’interno di una baia stretta tra monti e colline, protetta al largo dal sensuale profilo dell’isola di Corfù, che la nasconde ai naviganti.
Sulle acque di Igoumenitsa si gettano le propaggini terminali della catena montuosa del Pindo, regina dell’Epiro. La frontiera con l’Albania è ad appena 30 km da qui.
Avevo sentito parlare dei leggendari monti dell’Epiro, terre di pastori. Numerose sono le comunità Valacche provenienti dalla Romania dedite alla pastorizia. Tra queste, i Sarakatsani praticavano una transumanza permanente, muovendosi liberamente tra Grecia, Albania, Macedonia, Bulgaria. Alcuni arrivano in Romania, altri in Anatolia. Tutto ciò era possibile fin quando gli Stati non pretesero di tracciare tra loro confini e barriere.
Nel 1938, con il decreto nº 1223 del 4 maggio 1938, il dittatore Ioannis Metaxas obbligò i Sarakatsani ad abbandonare la propria cultura e procedere alla sedentarizzazione forzata. L’interessantissima cultura di questi nomadi è raccontata nel libro Rumelia: Viaggi nella Grecia del Nord di Patrick Leigh Fermor.
Di buon mattino comincia la discesa verso il Peloponneso, dopo aver riposato la notte in un alloggio prospicente il porto. Ci addentriamo nel cuore della Grecia continentale attraverso strade secondarie. Passiamo dai piccoli villaggi di Vasilikos, Mazarakia, Karteri, Margariti, Kalodiki.
L’Epiro è quanto mai vario, ora sospeso tra brulle e riarse colline, ora lanciato verso il mare, tra il resinoso lentisco e le variopinte ginestre. Qua e là sorgono pianure verdeggianti, solcate da acquitrini e aree umide. In corrispondenza del paesino di Ammoudia ritroviamo il mare.
Ammoudia è un piccolo villaggio di pescatori; esso sorge sulla foce del leggendario fiume Acheronte. Fino al 1928 il villaggio prendeva il nome di Σπλάντζα – Splantza – Spallancë, di derivazione albanese. La presenza di una comunità albanese all’interno dei confini greci si spiega con la mobilità che era consentita dall’Impero Ottomano. Poi, come altrove nella Grecia, il nome del paese venne grecizzato.
C’è una poesia – o forse nostalgia – in questi territori della Grecia del nord. E’ come se fosse ancora viva, da queste parti, un rifiuto per la definizione e per il confine netto. Possano questi popoli ricordarsi del passato comune. Tra questi pensieri passiamo Azio e Prevesa, dove termina l’Epiro glorioso. Poi la rocciosa Acarnaia si stende ai nostri piedi, e anche la ventosa e ricca di monti Etolia.
Giungiamo, quindi, alle porte del Peloponneso.
2 – Haris Fournakis, il Piccolo Principe greco.
Devo vedere un po’ di città – no, non la luna –
la città con le sue mani callose,
la città del salario quotidiano,
la città che giura sul pane e sul pugno
la città che ci regge tutti sulle spalle
con le nostre meschinità, cattiverie, inimicizie
con le nostre ambizioni, la nostra ignoranza e la vecchiaia,
devo sentire i grandi passi della città,
per non sentire più i tuoi passi
né i passi di Dio, né i miei passi. Buonanotte.– Ghiannis Ritsos, Quarta Dimensione
Il Peloponneso è una grande montagna circondata dal mare. Dopo alti monti, profondi canyon e rigogliosi boschi, questo lembo di terra termina con tre dita nel mare. Tre penisole ha il Peloponneso.
Malea, la più orientale, protesa verso Creta e abbracciata alle isole di Citeria e Anticiteria. Il Mani, patria di terribili corsari e spietati rivoluzionari, propaggine terminale e inaccessibile del maestoso monte Taigeto, che protegge la città di Sparta. La Messenia, infine, posta a Oriente, sullo Jonio, dolce di uliveti e seducente.
Superata la vivace città portuale di Patrasso, si entra nell’Elide, culla della mitica Olimpia. C’è solo una strada statale che conduce verso la Messenia. Si avvicina la periferia estrema della Grecia Continentale. Kyparissia è l’ultimo centro più popolato prima di entrare nella Messenia. Dopo Kyparissa, il centro più importante della Messenia è Pylos “sabbiosa”, come amava descriverla Omero.
La via prosegue tra uliveti e pinete. Il caldo rovente lascia il posto alla frescura del mare, fedele compagno della strada tortuosa. Un senso di liquidità pervade queste zone, di mobilità calma, di spazio umano rasserenante. C’è grande distanza tra i piccoli villaggi della zona, la strada è poco trafficata.
È pomeriggio inoltrato quando arriviamo a Filiatrà, anonimo paesino di poche migliaia di anime sulla strada che da Patrasso porta a Pylos. Troviamo, però, una sorpresa inattesa: sopra i tetti del villaggio svetta una riproduzione in ferro della Tour Eiffel. Ma a chi è venuto in mente di costruire una torre di venti metri alla periferia del Peloponneso?
I luoghi marginali hanno questo di unico: amplificano la curiosità. Perdiamo un po’ di tempo per le vie del paesino e ci intratteniamo nella piazza ombrosa. I paesani ci guardano incuriositi. Capiscono i motivi della nostra perplessità, così chiediamo della bizzarra torre. Un ragazzo ci risponde in greco. Ovviamente non lo capiamo. Tranne per due parole: “Harry Fournier”.
Abbozziamo un sorriso e veniamo ricambiati dal ragazzo, contento per essere stato utile a due stranieri. Cerchiamo ovunque nella piazza questo nome, senza trovare alcun riscontro.
Un greco di nome Harry? E Fournier, mica è un cognome greco. Un greco dal nome inglese e dal cognome francese? Forse il ragazzo si è sbagliato, o non ricorda il nome. Dopo molte ricerche, forse giungiamo ad una soluzione.
Harry Fournier è la storpiatura di Haris Fournakis. Questo il vero nome del misterioso costruttore di torri. Ma è qui che la storia si complica. Haris Fournakis è divenuto Harry Fournier nella memoria degli abitanti di Filiatrà per via del suo passato da emigrante. Alcuni dicono vivesse in Francia (da qui Fournier); altri, invece, negli Stati Uniti d’America (da qui Harry).
Tutti concordano sulla sua professione: medico. Haris, infatti, lasciò la piccola Filiatrà negli anni ’40 per trovare fortuna altrove. E, come molti, la trovò, arricchendosi col proprio lavoro.
Ma Haris aveva un difetto. Aveva nostalgia delle sue umili origini, del paese che tanto amava. Quella ricchezza accumulata non gli bastava in una terra straniera. E così decise non solo di tornare nel suo paese, ma di provare a risollevarne le sorti. Da qui la decisione di far costruire e donare alla sua comunità la Tour Eiffel peloponnesiaca. Haris era convinto che per curare la rassegnazione dei Greci fosse necessario educarli allo stupore.
Mentre ricostruiamo lo storia di Haris, fa ritorno il ragazzo dal sorriso gentile. Cammina sicuro di sé. Ha preparato un discorso e non vede l’ora di pronunciarlo:
“You go, North. 5 chilometers. Agrilos”.
E poi dice qualcosa che non percepisco immediatamente.
“Fairy Castle”.
“Non ho capito”.
“Big Castle”.
Ora, che il nostro interlocutore fosse sincero era fuori di ogni dubbio. Filiatrà è così isolata dalle rotte turistiche che nessuno si permetterebbe di confondere dei malcapitati viaggiatori. Ma qui la faccenda era seria. Non si trattava di un reperto archeologico. Il nostro amico ci stava dicendo che il buon Haris avesse addirittura costruito un castello in una frazione marina della già sperduta Filiatrà.
Ripartiamo sulla statale seguendo le preziose indicazioni forniteci. Prendiamo una traversa che porta su una stradina sterrata, passando tra campi coltivati a cocomeri, con alle spalle i mitici monti del Peloponneso. Non avevamo alcuna idea di cosa stessimo per vedere, l’immaginazione volava, la curiosità era alle stelle.
Poi, da dietro una pineta, iniziano a svettare delle torri bianche e rosse. Non credevamo a cosa stessimo vedendo. Dal nulla si materializza una struttura enorme dalle sembianze di un castello di qualche parco giochi Europeo.
Proprio sulla riva del mare, dove si infrangono i flutti, giace il castello di Haris. Il castello è solo in apparenza abbandonato, poiché si nota la riverniciatura recente e da una delle finestre si intravede una libreria. Forse che vi abiti qualche nipote del medico?
Ho avvertito una connessione profonda con questo luogo. Come se fosse capace di curare i dolori dell’animo. Immaginiamo un sognatore, seduto sulla riva di questo mare isolato, pensare e ripensare a cosa potesse rendere più bello il suo paese. Penso ad Haris come ad un sorta di Piccolo Principe in stile greco.
Ci siamo intrattenuti a lungo dinanzi al castello. Terra e mare emanano sensazioni potenti. Sento le speranze infrante degli emigranti e di chi è rimasto. Il cielo, ad un certo punto, si è incupito. Da una bassa casetta accanto al castello una donna lancia un secchio d’acqua per pulire l’ingresso. Per lei è come se non esistessimo, intenta nelle sue faccende. Non sembra incuriosita da quei due stranieri inaspettati.
Ancora una volta, l’ultima, volgo lo sguardo al mare verde-azzurro. La Grecità è un sentimento, è qualcosa che si ha nel sangue. Non si ama la filosofia di Platone o le gesta di Achille. La Grecità è il nucleo dell’umanità a noi più prossima. Grecità vuol dire essere consapevoli che ad accomunarci è lo stesso destino. E’ sapere che solo la consolazione reciproca può sconfiggere la sofferenza umana.
3 – I treni fantasma del Peloponneso e i fantasmi di Olimpia.
Traviati dai libri e dai maestri, abbiamo ridotto l’antica Grecia a una serie di statue marmoree senz’anima
– Nikos Kazantzakis, “La mia Grecia“, 1937
Quando percorriamo le contrade dell’Acaia lussureggiante, ricolma di boschi sulle vette lontane, mi torna in mente un appassionato resoconto di viaggio dello scrittore Nikos Kazantzakis, che nel 1937 visitò il Peloponneso. Di quel racconto trovo stupefacente il resoconto sulla capillarità della rete ferroviaria della regione, che consentiva di raggiungere villaggi e paesini altrimenti isolati.
Anche noi, come Kazantzakis, ci fermiamo nei pressi delle sperdute Andravida e di Kyllini, affacciate sul mar Ionio. Presso Kyllini si trova la grande fortezza di Chlemoutsi.
Dal villaggio di Kavasila, poco dopo Andravida, partiva una diramazione ferroviaria che congiungeva l’isolata Cillene alla linea Patrasso-Kyparissa. Aperta nel 1891, la linea è stata soppressa nel 1988.
L’intera rete del Peloponneso risulta oggi dismessa. Con l’eccezione del collegamento tra Olimpia e Katakolo, porto turistico nel quale approdano le crociere ricolme di turisti.
L’ho scoperto da una donna greca qualche anno fa. Con un amico partimmo da Atene in autobus alla volta di Micene. Attraversammo la meravigliosa Arcadia in un mattino di Ottobre. L’autobus ci lasciò nell’anonimo villaggio di Fichti. Sulla strada principale si trovava un bar e un alimentari. Nient’altro. Da lì cominciava la strada per Micene. In 5 km si giungeva al sito archeologico. Un tassista, fiutando un possibile affare guardando due poveri sprovveduti, ci offre il suo servizio. Rifiutiamo cordialmente, intenti a raggiungere Micene a piedi.
Accanto ad alcuni eucalipti odorosi, scorgiamo un tracciato ferroviario. Non sapevamo fosse dismesso. Notiamo una donna camminare sui binari. Evidentemente preoccupati, ci sbracciamo, temendo che improvvisamente giungesse un treno. “Treno”, “Treno”, urlammo.
La donna si mise a ridere, e gesticolando con la mano fece schioccare la lingua. Capimmo che non c’era da preoccuparsi.
Le linee ferroviarie del Peloponneso vennero dismesse all’esito della crisi finanziaria Greca. Con la ristrutturazione del debito, i principali asset pubblici vennero cedute a compagnie private. Le Ferrovie Greche furono acquisite nel 2017 per appena 45 milioni di euro. Le linee meno redditizie vennero così soppresse.
C’è un forte senso di abbandono in queste zone, tenute in piedi unicamente dalla bellezza della natura circostante. Il paesaggio dell’Acaia ha una strana forza misteriosa. Qui e là spuntano piccoli villaggi, abitati da persone che ti scrutano come fossi il più lontano degli stranieri. E’ come se gli abitanti fossero rimasti sospesi, a quale epoca non si sa.
Riprendiamo il cammino. Manca ormai poco per la mitica Olimpia, e in corrispondenza della città di Pirgo lasciamo la statale n. 9 e abbandoniamo la pianura. La strada segue ora la valla scavata dal leggendario fiume Alfeo.
Eccoci giunti ad Olimpia. Nonostante sia Settembre il caldo è atroce e ci mette a dura prova. Consumiamo un pasto spartano nelle vie antistanti il sito archeologico.
Durante le feste sacre tutta la Grecità si riuniva nella valle del fiume Alfeo. Giungevano dalle coste del Mar Nero, dall’Anatolia, dalle sponde dell’Italia. Suonatori, danzatori, donne e uomini affluivano da ovunque. Vesti colorare, agnelli allo spiedo serviti ai viaggiatori, vino in quantità. Olimpia era il cuore pulsante della Grecia sparsa per il mondo, era l’incontro di genti lontane, di chi veniva per mare e di chi giungeva per terra.
Oggi di Olimpia rimane solo il nome antico ed evocativo. I suoni caotici hanno lasciato il posto alla placidità della provincia. Un bel museo incornicia scudi di bronzo ed elmi dorici. Nessuna di queste armi vide la terribile guerra. Sono oggetti votivi, donati da tutti i Greci al Dio Zeus.
Bassi muretti di pietra seguono le polverose stradine, e qui e lì spuntano antichi ulivi e alberi frondosi. Il grigio delle colonne e delle rovine danza col verde-azzurro del cielo lievemente nuvoloso; un senso di tristezza scende dalle nubi sospese. In piccole guardiole sonnolenti dipendenti del ministero della cultura greco osservano i passanti.
Non mi dispiace che questo luogo non trasmetta nessuna gloria. Che non ci sia nessun ansioso rimando al passato luminoso, da contrapporre al cupo presente. C’è, anzi, un piacevole senso di resa e di pace. Perché continuare ad infierire sui Greci, che molto hanno patito negli ultimi secoli? Perché condannarli ad un confronto eterno col loro passato, che chiaramente non tornerà più?
Il Dio Zeus di certo qui non c’è, la sua casa è in rovina; gli aurighi hanno abbandonato i carri. I ginnasi chiusi per sempre, e le schiere di giovani oliati, tesi e col giavellotto hanno lasciato questa valle. Di questa decadenza i greci stessi sono le prime vittime. Inutile infierire. Dai Greci non pretendo che si risollevino con la lancia e lo scudo. Non mi aspetto da loro eroismi. Mi auguro solamente che la Grecia rimanga un porto di popoli, bacino di un’umanità sempre viva.
Solchiamo la terra battuta dello Stadio Olimpico, correndo intorno agli spalti deserti. Nessun alloro ci attende. Ma poi, che importanza ha la gloria? A che serve la vittoria, se non a preparare alla caduta? Com’è bello restare qui, tra vinti e sconfitti. Amo questa Grecia ridotta in rovina.
E’ tempo di ripartire. Così ci addentriamo nell’Elide, lasciando svanire Olimpia e piangendo i suoi fantasmi.
4 – Pylos sabbiosa. L’estremità del Peloponneso
Si levò il Sole, lasciando il mare bellissimo, salì verso il cielo colore del bronzo per dare luce agli dei e agli uomini sulla terra feconda
– Omero, Odissea, Canto III, vv. 1, Telemaco a Pylos
La punta estrema della Messenia è stata per lunghi secoli una roccaforte Veneziana. Pylos fu il caposaldo regionale della Repubblica di Venezia. La presenza Veneziana è testimoniata dalla doppia denominazione di molte località della zona. Pylos è anche chiamata Navarino e da Navarino prende il nome la bellissima baia su cui domina. I Veneziani costruirono quattro roccaforti nei dintorni di Navarino: due presso la città principale, una presso Modone (Methoni), e l’altra a Corone (Koroni). Attraverso questi antichi avamposti veneziani proseguirà il nostro viaggio.
4.1 – La baia di Navarino
Navarino conta 5.000 abitanti ed è il principale centro della penisola messenica. Il paese è posto all’imbocco meridionale della baia omonima. Accanto alla città moderna sorge la fortezza Neokastro (castello nuovo), mentre all’estremità nord della baia è posto il gemello Palaiokastro (castello antico).
La baia è protetta dall’isola di Sfacteria, che fa da muro naturale all’ingresso nella baia. L’isola è una sottile striscia di terra rocciosa e lussureggiante di boschi. Sfacteria è inabitata e inospitale. Fu tuttavia teatro di un celebre episodio della Guerra del Peloponneso. Sull’isola si asserragliarono un centinaio di Spartani, che per mesi impedirono agli Ateniesi di sbarcare sull’isola, prima di capitolare e di essere fatti prigionieri.
E’ davanti a questo stesso lembo di terra che a distanza di infiniti anni giunge il nostro viaggio. Telemaco approdò su queste rive per chiedere notizie del padre Odisseo al leggendario Nestore. Qui riposa un mare stupendo ed il sogno va subito alle poesie di Omero. Chissà che da dietro questi secchi cespugli non spunti un eroico marinaio scampato a Poseidone.
All’estremità nord della baia, sopra uno sperone roccioso, è costruito il Palaiokastro. Alla fortezza si accede tramite un accidentato percorso tra rovi. Salendo, tuttavia, si gode di una visione magnifica. Se si è fortunati, si possono ammirare autentici miracoli greci. A centinaia di metri più in basso, sulle rocce antistanti la spiaggia, notiamo un intrepido pescatore greco che zigzaga incurante delle asperità con una motoretta per trovare il punto migliore per la pesca.
Dall’alto del castello si gode di una completa vista della zona. A Sud l’isola di Sfacteria e la Baia di Navarino. A Ovest l’infito Mar Jonio. A Nord la spettacolare spiaggia di Voidokilias, dalla sabbia dorata. A Est, i monti del Peloponneso.
Cerchiamo di raggiungere la spiaggia di Voidokilias tentando di superare l’alto strapiombo che ci separa dalla riva agognata. Come marinai sperduti che cercano la via del mare, ci addentriamo nella boscaglia.
Ad un certo punto della discesa accidentata notiamo un anfratto profondo nella roccia. Ne approfittiamo per una pausa nella frescura della roccia. Scopriremo che quest’anfratto è dedicato al leggendario Nestore, signore di Pylos, re ospitale che fece a lungo soggiornare Telemaco, figlio di Odisseo, presso queste sponde.
Dinanzi a noi adesso si stendono bellissime dune sabbiose, irte di vegetazione mediterranea. Lasciamo passare molto tempo nell’esplorazione di questo tratto di costa. Scendiamo, infine, al mare, bagnandoci nelle acque senza tempo. Su uno dei due speroni rocciosi che chiudono il perfetto ovale della piccola baia di Voidolikias c’è un’antica struttura in pietra. Dicono sia la tomba di Trasimede, figlio del re Nestore. Tutto in Grecia ha una logica, un richiamo, un rimando.
Dopo esserci saziati col mare, puntiamo verso l’entroterra, lasciandoci alle spalle la distesa turchina. Una stretta stradina prosegue tra antichissimi filari di ulivi, ben radicanti nella rossa terra. Passiamo dal minuscolo villaggio di Petrochori. Tra le poche abitazioni è presente un caffè con un pergolato. Qui incontriamo una bellissima ragazza dagli occhi annoiati. Ci salutiamo con lo sguardo e torna a risplendere come il paesaggio greco in cui siamo immersi.
4.2 – Modone
Qualche chilometro più a Sud di Navarino, all’estremità della Messenia, si trovano altri due avamposti Veneziani. Modone e Corone erano chiamate Venetiarum ocellae, gli occhi di Venezia.
A Modone è situata la fortezza più grande e meglio conservata dell’intero Peloponneso. L’antico abitato era tutto ricompreso all’interno delle mura, mentre oggi è posto all’esterno di esse. Dalla fortezza si gode di una vista meravigliosa verso le isole antistanti, le selvagge e inabitate isole di Sapientza e Schizia. Quali mondi giacciono al di là di queste isole? Guardando questi lembi di terra che svaniscono sotto il sole desidero anch’io sparire nelle onde azzurre, libero.
Al di fuori delle mura e in riva alla spiaggia si stende il sonnolento e tranquillo paesino. Attorno all’unica piazza del paese alcune taverne mostrano i loro tavoli colorati e richiamano gli affamati visitatori. Come tutta la Messenia, a queste latitudini non sono molti i viaggiatori, ad eccezione di pochi irriducibili avventurosi. Possiamo così goderci la popolazione locale, non ancora minacciata dai flussi incontrollati di turisti.
Alcuni prendono il sole sulla spiaggia, altri stanno all’ombra degli alberi. Un venditore di frutta reclama l’attenzione dei passanti. Un bel senso di nostalgica solitudine aleggia sulle stradine assolate del paese. Basse case bianche costeggiano la riva, pochi rumori. Dei luoghi di mare non amo la veste estiva, ma il pensiero dei suoi inverni. Quando i giorni sono corti e freddi il mare diventa ancora più elitario, destinato a pochi sensibili. Col pensiero cerco queste sensazioni.
Sotto un pergolato, consumiamo un semplice pasto ascoltando i discorsi concitati dei nostri vicini greci. Un ragazzino imberbe serve indaffarato le vivande, nobile figlio del Peloponneso lontano.
4.2 – Corone
Se Modone occupa la parte Occidentale del dito della Messenia, Corone è posta sul versante Orientale. Appena 30 Km separano i due paesini, eppure profonde sono le loro differenze. Modone è un tranquillo paese di mare, pianeggiante ed accessibile. Corone, invece, parte dal mare e sale ripido fino alla sommità della collina dominata dal castello.
Mentre Modone è un ordinato paesino, Corone presenta vicoli intricati e la maggior parte delle case sono antiche. C’è una vitalità diversa a Corone, non so spiegarlo. Ma a pensarci, questo nome, Corone, io l’ho già sentito. Faccio mente locale, mi sforzo. E poi ecco la soluzione. Ma certo! C’è un paese, in Calabria, che porta il nome di Corone. E’ San Demetrio di Corone, uno dei centri culturali più importanti della comunità albanese in Italia.
Ma cosa c’entrano gli Albanesi con Corone, posta nel lontano Peloponneso? Intorno al 1500 a Corone aveva sede una fiorente comunità di Avraniti, genti greco-albanesi. Questi si rifugiarono proprio in Calabria, nell’attuale San Demetrio di Corone, per sfuggire agli Ottomani. Che meraviglia il vagare dei popoli, che meraviglia il confine labile o inesistente che consente il viaggio e la creazione di storie meravigliose.
La scoperta di Corone parte dal mare del paese. Una lunga banchina fa da lungomare. Un mare cristallino è ai nostri piedi, pesci di ogni tipo si avvicinano e gatti incuriositi si lanciano in un’improbabile pesca. Di fronte a noi si mostra il secondo dito del Peloponneso, il Mani, terra esotica che ha ispirato il bellissimo libro “Mani” di Patrick Leigh Fermor.
Dopo un giro per il paese ci avviamo verso il castello di Corone. E’ la terza fortificazione Veneziana che visitiamo. Ma se quelle di Navarino e di Modone risultano abbandonate o destinate a museo, quella di Corone ci sorprende. Essa è viva. Ha una funzione per la collettività. All’interno del castello, infatti, vi è un bellissimo cimitero, impreziosito da chiesette in calce bianca rilucente. Vi sono dunque due città a Corone, quella dei vivi, verso il mare, e quella dei morti, in cima al castello.
Nello spiazzo ove si trovano le sepolture, tutt’intorno vi sono pini che lasciano intravedere le scaglie azzurre del mare. Anche qui la vista è libera di spaziare sull’Egeo. Che dire di questa Grecia?
Sulle tombe epitaffi e nomi greci. Foto sbiadite e in bianco e nero di uomini e donne che hanno vissuto in questo isolato paese una vita intera. Quante vite, quante speranze. E’ confortante sapere che ci sono luoghi che esistono senza essere conosciuti, che non hanno bisogno di fama o consapevolezza per vivere. L’umanità Mediterranea è la consapevolezza che dietro un mare o dietro un isola vi sia qualcuno felice proprio quel mare e quell’isola che noi guardiamo da lontano. E’ sapere che qualcuno non ha bisogno di noi, che nessuno è indispensabile.
Sono molte le chiese ortodosse che circondano il castello. Di quante chiese aveva bisogno questa gente? Quanto a lungo avranno pregato il mare? Da uno spiazzo di un monastero svetta la bandiera della Grecia fino a perdersi nei colori del Mediterraneo. La Grecia non è una nazione, non è neppure un’idea. La Grecia è un sentire. La Grecia è una speranza. La Grecia è di tutti.
5 – Sparta e Mistra. Alla ricerca di Lacedemone.
“Perché ingannarsi?
Questo non sarebbe degno di un Greco.”
– Konstandinos Kavafis
Se si pensa al Peloponneso, si pensa a Sparta. Sparta la crudele, Sparta la leggendaria. Si sprecherebbero parole nel raccontarne la storia.
Tra la Messenia e Sparta si pongono alti monti. Una stradina piena di curve e strapiombi passa per queste zone montuose. In alternativa, c’è una comoda autostrada che aggira i monti. Decidiamo di giungere a Sparta per la via più ardua.
Appena scavallati i monti, prima di scendere nella Laconia, c’è l’antica città fortificata di Mistra, un tempo capitale del Despotato Bizantino di Morea. Fu un centro di enorme importanza per la cultura Bizantina e il sito archeologico rientra nel patrimonio dell’umanità dell’Unesco.
Dopo aver fatto visita all’antico centro Bizantino di Mistrà, chiediamo indicazioni ad un uomo fermo nello spiazzo del parco archeologico.
“Dove volete andare?”, domanda
“A Sparta, ovviamente“.
“Sparta? Ma non c’è nulla a Sparta“.
Sparta. Il suo nome rimbomba terrificante. Visitare Sparta senza farsi influenzare dal suo passato sarà un’impresa ardua. Una grande piazza quadrata è posta al centro della città. Oltre al municipio, ci sono una serie di locali. Protagonista assoluta della storia Greca, Sparta divenne col tempo un anonimo villaggio. Se ne persero le tracce. Solo nel 1834 il neonato stato Greco decise di rifondare la città. Il paese moderno sorge ai piedi dell’acropoli sulla quale sorgono i pochi reperti archeologici rimasti.
Aveva ragione l’uomo incontrato poco prima, non c’è molto a Sparta. Troviamo anche il museo archeologico chiuso. Il pomeriggio non apre. Non ci sono turisti da queste parti. Troviamo solo un gruppetto di americani in cerca degli Spartani. Illusi. Forse non sanno che sono andati via da più di due millenni.
Ripeto, sapevamo che non avremmo trovato nulla da visitare. Ma non è ciò che conta. Sparta parla a chi sa ascoltare. Sparta non offre attrazioni per turisti. Sparta non ha bisogno di inutili orpelli per piacere. Ben venga che qui non giunga nessuno. Resti pure isolata. E guai a provare a paragonare la gente del posto agli antichi Spartani. Non diamo colpe a questi umili Greci. Entriamo in un bar invogliati dallo stuolo di anziani presenti ai tavolini. La gentilissima e bellissima ragazza al bancone non capisce una parola né di inglese né di italiano, eppure ci capiamo.
Visitiamo i pochi ruderi rimasti, posti su una bella collinetta ricolma di ulivi. Da qui si gode una bella vista della valle di Sparta e del monte Taigeto sullo sfondo. Non avvertiamo alcun rimpianto per il passato glorioso. Non è questo che cerchiamo. Cerchiamo la mobilità dei destini umani, lo stravolgimento delle certezze. Sparta, un tempo gloriosa, è oggi una triste contrada. Morte e distruzione si sono abbattute sulla città antica, niente la riporterà in vita.
Eppure, esiste ancora un richiamo. Una chiamata giunge da questa valle spietata. “Vieni”. Dice. Tu la ignori. “Vieni!“, dice ancora più forte. E quando arrivi qui, dopo anni passati a leggere gesta ed encomi, comprendi la verità. Sparta non esiste, non vale la pena visitarla. Perché Sparta giace nel nostro cuore immenso. Nessuno può portarcela via.
E infine, rechiamo un saluto alla statua di Leonida, re di Sparta. Leonida il coraggioso, Leonida l’avventato. Leonida il condottiero, Leonida l’avido di gloria. Chissà. Quello che conta è il far parte, tutti, della stessa storia che va avanti da secoli. Tutti i popoli del Mediterraneo compongono un mosaico unico, che merita di essere tramandato. Leonida ha combattuto i Persiani, ma il nostro destino non è quello di proseguire la stessa lotta. Il nostro destino è pacificare i popoli gloriosi del Mediterraneo, affinché siano liberi e indipendenti.
Anche noi, però, senza saperlo, indossiamo l’ampio scudo Greco. Schierati, fianco a fianco, si uniscono tutti i popoli di questo mare.
6 – Fine
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
Il tramonto già toglie il disturbo quando ci sediamo su una panchina del molo di Igoumenitsa. Nella baia giungono le ultime navi. Attendiamo il traghetto che ci porterà a casa. Il viaggio è concluso. Sul lungomare un via vai di Greci chiacchieroni. Due ragazze abbassano la serranda di un negozio di telefonia, giungono alle rispettive auto, si salutano. Chissà cosa riverserà il destino a queste persone. Dalla finestra del loro appartamento, forse, osserveranno l’ultimo traghetto partire. Non sanno che su quel traghetto ci sono degli avventurosi che hanno attraversato in lungo e in largo l’aspro Peloponneso.
Ci fate mai caso? Ci fate mai caso a quante cose non sappiamo? A quante cose ci scivolano via, ignote? Quanto bene, quanta bontà, quanta umanità esiste senza che ce ne rendiamo conto? Eppure, tutto questo esiste, anche se non lo verremo mai a sapere.
Dalla Grecia ho appreso che componiamo tutti lo stesso mosaico, all’insaputa l’uno dell’altro. Ci sono proprio tutti, gente onesta e disonesta, santi e peccatori, giusti e assassini. Come verrà fuori questo mosaico non lo sappiamo. Lo lasceremo a qualcuno che non ci conoscerà mai. Se non vi fosse l’ignoto, non vi sarebbe umanità, non vi sarebbe pathos, non vi sarebbe condivisione.
Il popolo Greco ha molto sofferto. Lo si percepisce. Vi sono dei segni indelebili delle vicende tragiche che hanno riguardato la Grecia. Eppure, i Greci sanno che le fortune sono mutevoli. Atene è crollata. Sparta pure. I templi sono stati distrutti. Zeus è stato soppiantato da Dio. Cosa mai sarà quest’altra difficoltà? Patiranno, soffriranno, ma senza perdersi d’animo.
Abbiamo trovato in questa gente una gentilezza dimenticata, una poesia per la vita esemplare, un disprezzo per il pericolo e per le difficoltà ammirevole. I Greci si affidano, nei momenti dolorosi, alla loro terra, al loro mare. Abbiamo trovato una terra meravigliosa. Ogni angolo di Grecia, ogni pietra, ogni albero è testimone di un avvenimento mitologico, di una battaglia, di un episodio meraviglioso.
Torniamo a casa. Ma il viaggio non è finito.
Sono nato dall'increspatura dell'onda. Non ho deciso io il mio destino, ma il mare che tutto sospinge e muove. - Tu navigherai - mi disse un giorno. E così sono alla ricerca di Itaca. Ho un cuore mediterraneo, crocevia di emozioni e incoerenze, come i molti popoli di questo mare. Ma come posso dire con certezza chi sono?