La parola catabasi, (dal greco κατάβασις “discesa”, dai κατα “giù” e βαίνω “andare”) indica la discesa da parte di una persona viva nel regno dei morti. Per i greci e i latini l’Ade era un luogo fisico, al quale si poteva accedere da alcuni luoghi impervi o difficilmente raggiungibili. La visita alla valle del torrente Barvi, presso il piccolo comune di Molochio, ricorda le descrizioni delle discese negli inferi compiute da Odisseo, Orfeo, Enea e Dante: non bisogna salire su alcuna vetta, al contrario occorre scendere nell’ombrosa e stretta vallata. Dal punto di partenza si sente fragorosa, in lontananza, la voce dell’acqua, ruggito delle numerose cascate che si incontreranno sulla via. Si apre agli occhi del viaggiatore la visione di strette pendici che si gettano sul greto del torrente.
Si imbocca il sentiero che dal belvedere sulla valle del Barvi procede in discesa, entrando in un fitto bosco di lecci tagliato da un labile camminamento. Il rumore delle lontane cascate adesso svanisce, si odono solo i propri passi e rari uccelli. Questi, al nostro passaggio, si alzano in volo avvertendo gli abitanti del bosco della nostra presenza. Dopo un breve tratto si giunge sul greto del torrente. L’acqua gelida invernale scorre fragorosa attraverso grossi massi millenari. Roccia acqua e piante
formano un sistema armonico, si ha la sensazione di ritrovarsi in un paesaggio immaginario dove, tra muschi ed acque, debbano spuntare elfi o Hobbit.
La mente corre proprio alla descrizione della foresta di Fangorn, luogo della Terra di Mezzo di Tolkien: “là dove tutto era parso grigio e squallido, ora il bosco splendeva di colori bruni e caldi e di lisce cortecce grigio-nere simili a lucida pelle. I tronchi brillavano di un verde fresco come erba tenera: intorno agli Hobbit era giunta in anticipo la primavera, o una passeggera visione di essa”. Da quali grotte umide provenga quest’acqua non è dato saperlo, da quale cuore del monte sulle nostre teste, chissà. Bere quest’acqua fredda è come unirsi a ciò che hai intorno. Non solo rinfresca e disseta, ma fa dimenticare quella patina di “umanità” e “civiltà” che circondano ogni aspetto del quotidiano. Platone racconta nel X Libro della Repubblica il mito di Er. Er è un soldato morto in battaglia. Anch’egli compie e poi narra il proprio viaggio nell’Ade. Sarà lui concesso, infatti, di ritornare in vita per raccontare ai mortali cos’ha visto. In un passaggio del suo resoconto riporta che le anime dei defunti, dopo aver scelto la futura vita che li aspetta, bevano le acque del fiume Lete, di modo che possano dimenticare il precedente vissuto. Tra loro vi sono Agamennone ed Odisseo, due grandi condottieri i quali, memori delle sventure di una vita da re, scelgono rispettivamente di diventare un’aquila e un contadino. Chissà quale tra questi alberi fosse in passato un uomo ed abbia scelto di tramutarsi in un abitante del bosco. Sembra che dietro la dura corteccia vi sia “un pozzo, pieno di secoli di ricordi e di lunghe, lente e costanti meditazioni; ma in superficie sfavillava il presente, come sole scintillante sulle foglie esterne di un immenso albero, o sulle creste delle onde di un immenso lago”. (J.R.R. Tolkien, Il Signore degli anelli, cap. IV: Barbalbero).
In questo fluire del mondo e delle epoche c’è vita e morte. La vita che cresce rigogliosa sulle sponde del fiume, la morte che alimenta l’esistenza di questo luogo. Da milioni di anni l’acqua scava queste pendici. Un giorno anche a noi, forse, toccherà bere dal Lete. Il cammino riprende, seguendo sempre il corso del torrente. Si scende per una parete rocciosa, termine del corso del Barvi. Qui l’acqua compie un salto di quaranta metri, infrangendosi sulla roccia sottostante. Se un luogo del genere si trovasse in qualche zona più attrattiva e rinomata sarebbe certamente ricolma di turisti, snaturandosi la bellezza del posto. E’ un bene che, invece, la località sia e resti sconosciuta.
Altre bellissime cascate si trovano percorrendo il torrente. Il sentiero non è lungo e ciò consente di affrontare il cammino con calma e lentezza. E’ d’obbligo arrestarsi ad ascoltare la voce dell’acqua, identica ed immutata da milioni di anni in questa piccola parte del mondo. La facile retorica sulle bellezze della Calabria, quella retorica stagionale che fa assurgere all’attenzione ormai mondiale quelle due o tre note ed inflazionate località turistiche, non dovrà mai impadronirsi di questa valle. Non bisogna però temere l’uomo moderno. Egli è incapace di discendere nell’Ade, sia per l’asperità del cammino, sia per il timore di incontrare sé stesso. Sono certo che questi muschi, questi licheni, queste felci e queste cascate testimonieranno ancora a lungo la loro unicità e bellezza.
La discesa è conclusa, si affronta la risalita. Si ritorna nel mondo dei vivi, nel mondo delle strade trafficate, delle presenze costanti. Notte del 31 Dicembre. Ovunque è festa. Manca poco alla mezzanotte. In un istante ritorna alla mente la voce della cascata, improvvisamente. Da quanti secoli scorre quell’acqua? Continua a farlo anche nei giorni dove l’uomo ferma tutto, sia che siano di festa, sia che siano di profondo dolore. La cascata continua a cantare anche nel buio dell’ultimo dell’anno. Possiamo imparare molto dalla Natura, possiamo decidere se partecipare della sua eternità o se essere una mera presenza passeggera. Occorre, allora, scendere nell’Ade, vedere le ombre, vedere la morte e poi tornare alla vita, diversi.
Sono nato dall'increspatura dell'onda. Non ho deciso io il mio destino, ma il mare che tutto sospinge e muove. - Tu navigherai - mi disse un giorno. E così sono alla ricerca di Itaca. Ho un cuore mediterraneo, crocevia di emozioni e incoerenze, come i molti popoli di questo mare. Ma come posso dire con certezza chi sono?