Non dimenticare il ponte di Mostar

9 Novembre 1993. Trent’anni fa la distruzione del Ponte Vecchio di Mostar, in Bosnia Erzegovina. Costruito nel 1557 dagli Ottomani, era il simbolo del sincretismo religioso nei Balcani, oltre ad essere una delle principali espressioni dell’architettura Islamica in Europa.

I Mostarci, gli abitanti di Mostar, lo chiamavano affettuosamente il Vecchio. Univa religioni ed etnie diverse, che a lungo hanno vissuto insieme prima delle Guerre Jugoslave. Nel 2004 il ponte è stato ricostruito, ma molte ferite segnano ancora Mostar e i suoi abitanti.

La città è attraversata dal fiume Narenta. Sul lato sinistro del fiume ci sono quartieri croato-cattolici, simili nell’architettura ad una città europea, con alti palazzi e viali alberati. Sul lato destro, invece, c’è il quartiere Bosniaco-musulmano, simile ad un esotico mercato mediorientale. Unisce le due parti lo Stari Mostil Ponte Vecchio. Ovunque è un rimando alle mescolanze. Ora spunta un minareto tra le case, ora è visibile in lontananza una croce posta sulle alture.

La Bosnia colpisce per i suoi contrasti, sospesa tra Europa e Asia, tra Cristiani e Musulmani. Una terra romantica e ferita, perennemente sospesa e in equilibrio. La sua gente ha negli occhi la struggente nostalgia di un mondo luminoso e pacifico, travolto da terribili eventi.

Questo racconto è per i Mostarci, con la speranza che dalle crepe delle bombe e dei proiettili fiorisca la pace.

PROLOGO  – Gli scontri a Mostar

Era quel simbolo, e non il manufatto, che si era voluto colpire. La pietra non interessava ai generali croati. Il ponte, difatti, non aveva alcun interesse strategico. Non serviva a portare armi e uomini in prima linea. Esisteva, semplicemente. Era il luogo della nostalgia, il segno dell’appartenenza e dell’alleanza tra mondi che si volevano a tutti i costi separare.
(Paolo Rumiz, “La Repubblica”, 2003)

La Bosnia è il paese dei ponti. Il ponte è per la Bosnia il simbolo per eccellenza. Lo testimonia l’opera del premio Nobel Ivo Andrić, che nel 1942 scrisse Il Ponte sulla Drina. Ripercorrendo le vicende storiche del ponte di Višegrad, Andrić traccia le coordinate sociali e culturali della Bosnia multiculturale nel corso dei secoli.

“Di tutte le cose create e erette dall’umanità, nella mia mente nulla è meglio e più apprezzabile dei ponti. Essi sono più importanti delle case, più sacri e più universali dei templi. Essi appartengono a tutti e trattano tutti in egual misura, in un luogo dove la maggior parte delle necessità umane si intrecciano.”

Quanto siano importanti i ponti lo dimostra il nome della stessa Mostar, che deriva appunto da Stari Most. Il ponte fu costruito dagli Ottomani nel 1557, gioiello dei popoli. Mostar è circondata da alti monti. In città vivono Serbi, Bosniaci e Croati.

1910. Foto del ponte di Mostar

Dopo secoli di convivenza, calò la terribile guerra sulla città. Tra il 1992 e il 1995 Serbi, Croati e Bosniaci divennero nemici l’uno per l’altro. Mostar, per la sua felice posizione geografica, si trovò al centro degli scontri.

1994. Dei 7 ponti di Mostar, rimane in piedi solo lo Stari Most

Fa freddo a Mostar la mattina del 9 Novembre 1993. Sui monti circostanti cade la prima neve. La città è spettrale. Sulle alture è appostata l’artiglieria croata. I soldati osservano Mostar. Molti di loro hanno abitato nella bella città che adesso cingono d’assedio. Un distesa di grigie costruzioni è ai loro piedi, molte sventrate e ridotte in macerie. I pochi superstiti vivono rintanati nelle cantine o in ripari di fortuna.

Un soldato cerca riparo durante gli scontri. Sullo fondo il Ponte.

Gli artiglieri prendono la mira. Viene dato l’ordine di far fuoco. Le granata centrano in pieno il Ponte Vecchio, che dopo molti tiri crolla in frantumi nel fiume Narenta, freddo come il cielo. Dai rifugi di fortuna i Bosniaci osservano la nuvola di polvere. Il fumo svanisce. Dov’è il ponte? Il simbolo, l’orgoglio della città non esiste più. Spazzato via. Cinque secoli distrutti. Piangono gli uomini, stringono i denti i ragazzi, si abbracciano le donne nei loro veli.

Pochi mesi fa, dopo quasi trent’anni, è stato pubblicato un video, che rende inequivocabile la responsabilità dei vertici Croati nella distruzione del ponte. Nel 2017 il Tribunale dell’Aja condannò in via definitiva 6 leader militari croati per i crimini di guerra commessi nella regione di Mostar.

Tra questi vi era Slobodan Praljak, suicidatosi durante la lettura della sentenza. Divenne famoso in tutto il mondo per il suo gesto. Fu proprio lui a dare l’ordine di distruggere il ponte.

Il Ponte Vecchio dopo i bombardamenti

I – Perché la Bosnia?

Più cose so sulla Bosnia, più ho bisogno di consiglieri
Francois Leotard, ministro della Difesa Francese.

Un sogno sospeso, una vita senza tempo o epoca. I Balcani sono indecifrabili, oscuri, sfuggenti. I moderni stati hanno eretto forti barriere culturali e confini impermeabili. Qui si parla questa lingua, dall’altra parte si parla quest’altra. Qui crediamo in questo Dio, qui in quest’altro.

I Balcani sfuggono a questi schemi costrittivi. Sono, anzi, la perfetta metafora delle conseguenze di un nazionalismo cieco che pretende di erigere confini dove non sono mai esistiti.

L’idea di un viaggio in Bosnia Erzegovina nasce per caso, ma risponde ad un’esigenza spirituale. Ero alla ricerca di un luogo dove non vi fosse una cultura dominante, attorno alla quale gravitano piccole e irrisorie minoranze. Ero alla ricerca di un posto dai confini mobili e incerti.

Tre popoli abitano la Bosnia: bosniaci, serbi e croati. Fu durante il dominio Ottomano che parte degli abitanti della Bosnia si convertì all’Islam, mentre i Serbi rimasero Ortodossi e i Croati Cattolici. Nonostante le diverse confessioni, in Bosnia si sperimentò un’originale forma di convivenza tra religioni, testimoniata dalla mescolanza di architetture e di usanze. Pur se minoritaria, era presente anche una nutrita comunità Ebraica.

La Bosnia è dunque da secoli un crocevia tra Europa Oriente. Difficile è dire cosa sia la Bosnia. I tre popoli hanno sì tre confessioni diverse, ma parlano una lingua unica. Diversità e unione si mescolano a vicenda e restituiscono un quadro difficile da interpretare.

Ma chi sono, allora, i Bosniaci?

Sono efficaci le parole di Mesa Selimovic nel suo insuperabile Il derviscio e la mortescritto nel 1966 a Sarajevo:

perdiamo il nostro volto e non possiamo prendere quello degli altri,
sradicati e non accettati, stranieri per tutti,
sia per coloro che sono della nostra stessa razza
che per coloro che non ci accolgono nella loro.

II – Verso Mostar

Noi non apparteniamo a nessuno,
ci troviamo sempre su una frontiera,
sempre appannaggio di qualcuno.
C’è quindi da stupirsi se siamo poveri?
Sono secoli che tentiamo di riconoscerci,
fra poco non sapremo nemmeno chi siamo.
Mesa Selimovic, Il derviscio e la morte (1966)

Questa storia comincia al confine tra Croazia e Bosnia Erzegovina. Alla dogana annoiati funzionari controllano velocemente i documenti. Mi allontano dalla frontiera. Ogni mio pensiero è rivolto alla meta, Mostar. La sua storia mi ha stregato e desidero scoprirla. Rivolgo lo sguardo alle mie spalle. Pochi metri dietro c’è la Croazia, moderna economia in crescita, parte integrante dell’Unione Europea. Davanti, invece, si stendono gli spartani villaggi della Bosnia, nazione dimenticata.

 

Il primo villaggio dopo il confine è Bijakovici. Curiosa è la diffusione dell’Italiano, presente su tante insegne e targhe. La strada segue il profilo delle brulle colline, poi diviene tortuosa man mano che prosegue. Dopo aver superato un passo roccioso inizia a far capolino, nella pianura in basso, la città di Mostar.

Subito si gela il cuore per la quantità e l’estensione dei cimiteri, ferite vive del tessuto urbano. Il bianco candido dei cimiteri contrasta col verde delle colline. I Bosniaci usano segnare il luogo di sepoltura con un obelisco bianco, alto circa un metro, a poca distanza l’uno dall’altro. Oltre i cimiteri pubblici, vi sono anche quelli annessi ai luoghi di culto, diffusi in tutti i Balcani.

 

A Est un’alta catena di monti circonda Mostar. La vetta più alta, il Velez, raggiunge quasi i 2000 metri. Appena oltre la catena montuosa c’è la seconda anima della Bosnia, la parte Serba. La Bosnia ed Erzegovina, infatti, è una federazione di nazioni. Da un lato c’è la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, a maggioranza croata e bosniaca; dall’altro c’è la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. Tale divisione fu il frutto degli accordi di pace e mina ancora oggi lo sviluppo e l’unità delle istituzioni Bosniache.

Uno dei tanti edifici segnati dalla guerra

 

III – I murales, i caffè e le religioni

Entro in città imboccando il viale alberato di Kneza Branimira, posto sul lato sinistro del fiume Narenta, nel quartiere Croato. Dopo pochi minuti passo per la piazza più grande della città, Spanjolsky Trg, “Piazza di Spagna“. La piazza è dedicata ai soldati Spagnoli che morirono a Mostar durante la guerra. Nei dintorni della piazza è rimasto un edificio sventrato dai bombardamenti. La città è disseminata di edifici che recano ancora i segni degli scontri.

Mi fermo a Tvarka Milosa, un altro viale alberato che passa attraverso alcune palazzine popolari decorate con vivaci murales. Il viale procede verso Sud, in direzione del centro della città.

 

Mi fermo in uno dei caffè a ridosso del centro storico. Prima di proseguire voglio entrare in contatto col clima della città. Nei Balcani le persone amano trascorrere molto tempo nei caffè. La loro passione è osservare il via vai dei passanti, più che chiacchierare o godersi qualche bevanda. Dai tavolini di un bar ammiro la moschea Lakišić, la prima che incontro a Mostar.

Mi incammino verso il centro storico. In pochi metri incontro un’altra moschea, una chiesa cattolica e una sinagoga. Di questa rimane solo il recinto del vecchio edificio. La ricostruzione della sinagoga si è persa nei meandri della corruzione bosniaca, causata dalle intricate istituzioni congegnate a seguito della guerra. Gli Ebrei giunsero a Mostar nel 1400, dopo le persecuzioni in Spagna. Attualmente risiedono in città poche decine di Ebrei.

 

 

IV – La città divisa

 

Nonostante gli accordi di Dayton del 1995, c’è ancora distanza e diffidenza tra la popolazione cattolica e quella musulmana. Sono ancora molte le divisioni nella città. Mostar ha ad esempio due ospedali, due centrali dei pompieri, addirittura due centrali elettriche. Tutto ciò per non scontentare una delle due parti.

L’assurda distanza tra le due parti è resa evidente da un fatto. A Mostar non si tengono elezioni per nominare un sindaco dal 2008. L’attuale sindaco è Ljubo Bešlić, sindaco del partito nazionalista croato, eletto ormai 10 anni fa, che spartisce il potere con un vicesindaco espressione del partito nazionalista bosniaco.

La divisione che reputo più terribile è però quella che riguarda i giovani di Mostar. Anche le scuole sono divise. Esiste un percorso scolastico croato e uno bosniaco-musulmano. Ai ragazzi viene così imposta una scelta atroce: scegliere di studiare separati dagli altri coetanei.

Mi dirigo allora verso un edificio simbolo di Mostar. Il Liceo o Gimnazija Mostar. Bombardato durante la guerra, è stato ristrutturato recuperando lo stile originario. Viene popolarmente chiamato Stara Gimnazija (il vecchio ginnasio). L’edificio è caratterizzato da elementi andalusi e mamelucchi, creando una curiosa architettura islamica di fantasia europea. Negli abitanti di Mostar sopravvissuti alla guerra c’è una grande nostalgia verso questo luogo, dove in passato generazioni di bosniaci e croati sono cresciute insieme.

 

Il Liceo di Mostar

Anche in ambito sportivo si riflette la divisione della città. Le due squadre di calcio di Mostar sono l’FK Velež Mostar e l’HŠK Zrinjski Mostar. La prima raccoglie la comunità bosniaca e i suoi tifosi sono chiamati Red Armyla seconda è seguita dai tifosi croati, chiamati Ultras Mostar.

La divisione sportiva riflette anche quella politica. Il Velež richiama il socialismo, mentre l’HŠK Zrinjski Mostar rimanda al nazionalismo croato.

 

La rivalità è resa ancora più incandescente dal fatto che l’attuale e più grande stadio dello Zrinjski appartenesse in origine al Velež. Durante la guerra, infatti, lo stadio venne requisito e attribuito alla squadra croata, mentre quella bosniaca fu costretta a costruire un nuovo stadio in una zona periferica di Mostar.

 

V – Il ponte di Mostar e il quartiere musulmano

Le lunazioni si susseguivano e le generazioni sparivano rapidamente,
ma il ponte restava, immutabile, come l’acqua che scorreva sotto le sue arcate
Ivo Andric – Il Ponte sulla Drina

Tanti contrasti ha Mostar. I due popoli, la compresenza della città viva e della città distrutta, la commistione tra religioni. Tutti questi contrasti, tutte queste divisioni, confluivano e confluiscono nel Ponte.

Dopo la ricostruzione del 2004 attorno allo Stari Most si è sviluppato un modesto giro turistico. Mostar è anche famosa per le competizioni di tuffi. Una di queste era in corso proprio mentre ero in visita alla città. Per alcuni abitanti è tradizione lanciarsi dal ponte nel profondo fiume. Prima della guerra, i pochi viaggiatori stranieri davano qualche moneta ai disgraziati ragazzi bosniaci, ben lieti di lanciarsi in acqua.

Prima del ponte c’è la moschea Hadži-Kurtova, una delle più piccole e intime di Mostar. E’ situata nel quartiere della Tabhana, sede in passato di numerose concerie. Non ci sono persone in visita in quel momento. All’ingresso, sotto l’ombra del porticato, c’è un ragazzo con in mano un libro. Per 3 marchi bosniaci (equivalenti ad 1,50 euro) mi fa entrare. Cerco di carpire l’argomento del libro. E’ dedicato al massacro di Srebrenica, dove furono uccisi 6.000 bosniaci nelle fasi finali della guerra.

Entro nella moschea, non sapendo a quale Dio rivolgermi. Croci, minareti e popoli tra loro mischiati. Com’è facile, a pensarci, perdere le coordinate quanto tutto attorno a me non ha una definizione netta. Prego che questi ragazzi riescano a costruire la pace, anche se sembra molto difficile.

 

 

Esco dalla moschea ed entro nel vecchio Bazar, oggi sede di molti negozi di souvenir. Mostar è frequentata principalmente da un turismo regionale. Molto presenti sono i Croati e i Serbi. Discreta la presenza di Tedeschi o Polacchi, i quali fanno un salto a Mostar durante il loro soggiorno nella soleggiata Dalmazia. Notevole, invece, è la presenza degli Italiani, i quali giungono a Mostar dopo la visita al santuario di Međugorje, posto a pochi chilometri da Mostar. Non è raro, inoltre, sentire qualche locale armeggiare qualche parola di italiano. A tal proposito, l’Italiano e la cultura italiana godono di buona salute in Croazia e Albania, per l’ovvia ragione dei legami storici tra culture, ma anche in Bosnia, dove sono attivi anche corsi liceali di Italiano.

 

Finalmente ecco il Ponte Vecchio, molto frequentato. La sensazione che mi restituisce è quella di una struttura che ha perso il suo vissuto e la sua storia. Oggi lo Stari Most è un’attrazione turistica. Il Ponte ha perso la sua storia e la sua funzione. Rimane se non altro un monumento alla memoria, estraneo però alla vita quotidiana della città, lontano dal via vai quotidiano della gente del luogo, avulso dai sogni e dalle ambizioni dei Mostarci.

Attraversato il ponte mi abbraccia il quartiere musulmano. E’ più vivo e attivo di quello Croato. Si percepisce un clima più accogliente e meno impostato.

Colpisce subito il passaggio dalle persone in abiti occidentali del lato sinistro a quelle in abiti orientali del lato destro. Uno dei primi edifici che incontro è una bella struttura in stile orientale: l’Istituto Yunus Emre è un’organizzazione senza scopo di lucro fondata dal governo turco nel 2007 e mira a promuovere la lingua e la cultura turca in tutto il mondo.

 

 

Poco più avanti c’è la moschea Nesuh-aga Vučjaković del 1564. Per i fedeli affezionati è conosciuta anche come “la moschea sotto il tiglio“, poiché qui un tempo vi era un grande albero. Accanto alla moschea sorge un piccolo cimitero, nel quale riposano molti ragazzi morti durante le battaglie che hanno insanguinato Mostar.

Basta alzare gli occhi per vedere, verso il lato croato, un’imponente croce cristiana sulle alture circostanti.

 

Mi riparo all’ombra della tettoia. La moschea è vuota e all’ingresso sostano alcune donne. Chiedo loro se è possibile visitarla, ma mi rispondono timidamente che è proibita la visita e che è possibile unicamente pregarvi. Resto qualche altro minuto all’esterno della struttura, godendo del silenzio della zona e il piacevole via vai dei primi fedeli.

 

 

A pochi metri trovo un’altra bella moschea, la Koski Mehmed-Pašina. L’altissimo minareto consente una splendida vista sulla città e sul Ponte Vecchio. Dianzi la moschea è presente un’antica Sadirvan, una fontana costruita nei cortili interni delle moschee per consentire ai fedeli di poter provvedere alle rituali abluzioni prima della preghiera. I Sadirvan sono originari della Persia, importati in Europa (principalmente nei Balcani) durante l’Impero ottomano.

L’ultima moschea che visito è la Karadoz Bey, una delle più grandi di Mostar. Di fronte la moschea c’è un cimitero diverso da tutti gli altri. Pur essendo musulmano, le lapidi recano scritte in cirillico, alfabeto utilizzato dai Serbi. Una curiosa commistione tra popoli che la guerra ha lacerato.

 

 

VI – La pace

Sono i piccoli gesti a fare la pace. La pace è un processo in atto, non uno stato definitivo. “Facciamo la pace”, diciamo tutti da bambini. C’è una grande verità in questa frase. La pace si fa, la pace si crea. La pace non è una fotografia, non è un istante, non è un frammento. E’ un esercizio. Richiede uno sforzo, un avvicinarsi.

Non so se oggi a Mostar ci sia una vera pace. Ma so che esiste la speranza, che esistono le radici della comprensione. Perché questi popoli, oggi divisi, un tempo vivevano insieme. Nel loro animo deve esserci ancora una traccia di questo passato comune.

Mentre penso a queste cose mi fermo all’ombra di una moschea. E’ pomeriggio inoltrato, ma fa ancora caldo. Non riesco a pensare ad altro. Deve esserci un modo. Si deve poter vivere insieme. Ma come?

Una donna coperta da un velo sistema alcuni articoli sopra un banchetto. Poco dopo passano una mamma con una bambina. La piccolina ha al collo una croce e indossa un vestitino bianco e rosso. Si ferma all’improvviso. Ha notato un gatto che osserva sornione i passanti con un binocolo. Sembra un personaggio del romanzo Il piccolo Principe. La bambina si ferma incuriosita per accarezzare il felino, all’ombra dell’alto minareto della moschea. La madre scambia uno sguardo di intesa con la donna col velo, che ricambia con un sorriso.

 

Non scende più il dolce sonno sui miei occhi.  Ogni notte prego per Mostar. Prego per i ragazzi serbi, prego per le madri bosniache, prego per gli uomini croati. Prego per tutti loro, perché molto è il dolore.

Poi mi pare di intravedere il ponte di Mostar. L’azzurro fiume che passa ai suoi piedi a poco a poco rosicchia le mura, i mattoni, giunge alle case, inonda tutta la città, tutto diventa buio.

Forse solo la pace può ricomporre un animo lacerato.

 

 

 

 

Sono nato dall'increspatura dell'onda. Non ho deciso io il mio destino, ma il mare che tutto sospinge e muove. - Tu navigherai - mi disse un giorno. E così sono alla ricerca di Itaca. Ho un cuore mediterraneo, crocevia di emozioni e incoerenze, come i molti popoli di questo mare. Ma come posso dire con certezza chi sono?

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