Non è tanto il tono di voce, quanto le parole scelte, i gesti e i segni del volto, le dimensioni della pupilla e quel colore rosso vivo che circonda l’iride dei loro occhi.
È l’epoca – periodo della durata variabile e imprevedibile – in cui il contorno della parola ha più importanza della parola stessa, sminuendone il valore, sacrificandola sull’altare della nuova verità che non si eleva rispetto alla verità precedente, mutandone magari alcuni aspetti o chiarendone i contorni, ma cancellandone i segni passati, la storia, il percorso compiuto fin qui.
Un tema di cui si discute molto, forse non abbastanza e di cui si stanno occupando studiosi, giornalisti, scrittori, uomini e donne di cultura, fortemente preoccupati dalla “deriva dell’urlo” che negli ultimi tempi ci ha letteralmente invaso, quasi sommerso. Un’ondata che si autoalimenta raccogliendo sul proprio percorso parole, gesti, sguardi, pensieri violenti, pruriginosi, facinorosi, furiosi. Un fiume incontrollato, impetuoso e travolgente.
È sufficiente dare uno sguardo anche fugace ai social e su quella che ormai rappresenta l’appendice della nostra esistenza, della nostra essenza: la bacheca di Facebook. Dubito fortemente che il multimiliardario americano, suo fondatore, si sarebbe aspettato un’evoluzione tanto incredibile quanto deprecabile.
Già perché (non prendiamoci in giro) tra musica e foto, like e condivisioni, esiste di fatto un universo parallelo che giorno dopo giorno rosicchia un pezzo della nostra vita, gettandolo in pasto al resto della comunità con la stessa facilità e semplicità con la quale ci si farebbe travolgere da un’auto o da un tir, a piedi, in autostrada.
Ne siamo consapevoli ma non coscienti, certo, eppure soggiogati, sedotti. E con la stessa facilità cediamo al fascino della parola, quella più infima e bassa, quella che hai il coraggio di scrivere ma non dire, di pensare ma non leggere. Parole che, come un vortice più simile ad un uragano, spazzano via e allo stesso tempo raccolgono consensi e applausi, insulti e offese a buon mercato.
Un quadro di generale appiattimento culturale e sociale già partito ma quanto e come durerà (e dove ci condurrà) nessuno pare saperlo e essere in grado di prevederlo, domande a cui nessuno sa rispondere con la stessa certezza che si ha sul colore del cielo. Ma intanto li vedi ancora, sono tutti lì con il loro livore, la rabbia costante, l’insoddisfazione perenne, la frustrazione che brucia buon senso e misericordia, incenerisce il buono e il bello, e costruisce dai loro resti odio e violenza.
Come essere in guerra senza saperlo, come camminare in un deserto chiedendosi ad ogni metro percorso dove sarà la prossima oasi.
“Cultura: l’urlo degli uomini in faccia al loro destino”, così diceva Albert Camus. Ecco, l’unico grido che vorremmo sentire in questa selva di corpi sbraitanti e ridondanti. Un urlo che risvegli le coscienze, che cancelli i segni delle ovvietà, che costruisca gradini per risalire dal fondo.
Sono i ricordi e gli amori che non ho mai avuto, le risate e le bugie, gli schiaffi presi e quelli non dati, ma anche i sorrisi e gli sguardi rivolti nel vuoto delle anime che mi circondano e spesso ne scrivo anche. Giornalista di professione, utilizzo i miei occhi e i miei sensi per trovare un filo che unisce le migliaia di distrazioni che mi circondano e che mi confondono.