Un tuffo nell’animo più profondo, nei pensieri più vuoti, vuoti come i bicchieri che fino ad un istante fa erano ancora colmi, di whisky, scotch, vodka, soda, ghiaccio. La testa che gira, le fantasie che volano e le mani che si muovono, lente ma decise, su percorsi precisi segnati da matite o penne consapevoli. Fiumi di consonanti e vocali, parole e poi pagine, capitoli dritto dritto fino alla parola fine, la conclusione di un futuro capolavoro.
Sarà andata più o meno così circa un secolo fa, quando nei locali più famosi di Parigi – La Rotonde o La Coupole e , soprattutto La Closerie del Lilas – un gruppo di giovani artisti si riuniva tutte le sere, immersi in discorsi infiniti fino all’alba, fino al mattino, persi nei racconti di una vita ancora in salita, fatta di amori sognati e cuori infranti e di amici sinceri. E poi il sogno di tutta una vita, diventare scrittori, magari anche famosi. Sogni che diventano lucidi e vividi sul fondo dell’ennesimo bicchiere svuotato, ma che al mattino assumono i contorni di una nuova squallida illusione.
Siamo negli anni ’20, all’indomai della Prima Guerra Mondiale che l’Europa, gli Usa e il mondo intero si sono gettati alle spalle contando milioni e milioni di vittime. I segni di questo strazio di vite, di dispendio di risorse finanziarie e di equilibri di potere spostati si vedono, eccome, negli animi della nuova generazione di giovani, spaesati e disorientati in un modo che, a fatica, raccoglie i pezzi di un disastro più grande di quanto si potesse prevedere.
E’ in questo contesto che il mondo dell’arte, delle cultura e della letteratura cambia i suoi orizzonti, i punti di vista e le concezioni e, in modo del tutto naturale e spontaneo, fiuta il disagio socio-politico e l’incertezza economica-politica mondiale. Sono questi “Les Années Folles”, gli anni folli e Parigi ne è il centro nevralgico, cuore pulsante di un cambiamento che appare inevitabile.
Nella capitale francese, infatti, si fanno strada le nuove concezioni legate alla spensieratezza, il disincanto e il totale allontanamento da tematiche cruciali come politica ed economia. E’ proprio in questi anni che si fatica a trovare una guida, un faro che illumini e indichi la via o comunque un piccolo sentiero che porti verso nuovi valori.
L’alcol diventa, dunque, l’unico rifugio credibile, la nave sicura verso un mare di incertezze. La scrittura la stella cometa da seguire, bagliore in una notte senza stelle. Sentimenti, storie di vita, di fughe da posti remoti, la “Generazione perduta” si incontra tutte le sere e ancora fra un bicchiere e l’altro, si prepara a segnare un solco indelebile nella storia della letteratura mondiale.
Già, la “generazione perduta”. Ad usare per la prima volta questa definizione fu un meccanico francese che aveva sgridato un suo giovane operaio che non era riuscito a riparare un’automobile, emblema di una folta schiera di giovani incapace, all’apparenza, di sistemare, di mettere a posto anche la cosa più banale, figuriamoci il loro animo.
La definizione fu poi “rubata” da Gertrude Stein, vera e propria figura chiave e fonte inesauribile di consigli, suggerimenti, preziosi come la luce. Attorno a lei gravita il mondo artistico e culturale di quel tempo, fra tutti due scrittori statunitensi, Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald.
Sono proprio loro gli animatori di un movimento culturale che non conosce limiti e che riesce, più di ogni altro, a dar luce ai sentimenti più nascosti dell’animo umano nelle sue accezioni estreme. Le notti folli vissute nei bar, in giro per l’Europa e per la capitale francese sono il leitmotiv intorno al quale si snodano storie d’amore, storie di vita vissuta senza uno scopo preciso, sperpero di denari, debiti, illusioni, disillusioni e vuoto, quel buco che pervade l’anima fino a nasconderne i contorni, la forma.
“Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna perché Parigi è una festa mobile.”
E i loro racconti, i romanzi di Hemingway e Fitzgerald sono il paradigma perfetto di questa generazione, il filo su cui gli autori stendono le loro paure, le loro incertezze trasferendole nei personaggi, protagonisti di storie molto spesso autobiografiche.
Donne avvenenti ma vuote, spinte dal solo desiderio di successo nel mondo del cinema e dello spettacolo. Uomini affascinanti, rampolli di famiglie benestanti, ricche ma non nobili. Figli e nipoti di ricchi signori che hanno fatto fortuna nel mondo delle finanze e che faticano a ritagliarsi un ruolo, un’identità nella società che li scruta e li osserva solo fino alla superficie.
“La tua vita sulla terra sarà, come sempre, l’intervallo tra due occhiate importanti in uno specchio mondano.”
Gli amori sono frutto di passioni momentanee, dell’illusione del domani. La bellezze non dura per sempre e questo i protagonisti lo sanno, ci convivono ogni giorno e affogano la fugacità del tempo nell’ennesimo drink alcolico. I viaggi intorno al mondo non allontanano lo spettro di una vita insoddisfacente anzi ne acutizzano i sintomi.
I capolavori letterari di Hemingway e Fitzgerald ne sono il testamento, l’affresco ancora vivido di condizione umana che ancora ci appartiene e che si palesa tutt’oggi in tutta la sua interezza nelle vite che conduciamo ma che non guidiamo.
Difficile non trovare parallelismi tra la nostra generazione e quella “perduta” degli anni ’20 parigini. Dopo circa un secolo, l’animo umano vive ancora le stesse paure, le stesse incertezze che affronta, tutti i giorni, specchiandosi nell’animo di chi ci sta attorno, nelle parole vuote di chi ci rassicura, negli sguardi assenti di chi ci guida nel buio, nelle orecchie sorde di chi ascolta le nostre paure.
(ph. Francesca De Fazio)
Sono i ricordi e gli amori che non ho mai avuto, le risate e le bugie, gli schiaffi presi e quelli non dati, ma anche i sorrisi e gli sguardi rivolti nel vuoto delle anime che mi circondano e spesso ne scrivo anche. Giornalista di professione, utilizzo i miei occhi e i miei sensi per trovare un filo che unisce le migliaia di distrazioni che mi circondano e che mi confondono.